Antologia critica

Anni Cinquanta e Sessanta

Autobiografia al paese. La città

Testi di Mario De Micheli, Francesco De Bartolomeis, Raffaele De Grada, Armando Plebe, Antonello Trombadori, Pierangelo Soldini, Luigi Cavallo

Fausto Coppi 1964-73

Testi di Piero Leddi, Antonello Trombadori, Duilio Morosini, Franco Loi, Nicoletta Colombo

Anni Settanta

Teste 1967-70

Testi di Piero Leddi, Francesco De Bartolomeis, Mario De Micheli

Simboli e metafore

Testi di Piero Leddi, Giovanni Mattana, Virginio Giacomo Bono, Franco Loi, Davide Lajolo, Luigi Carluccio, Gianfranco Bruno

Il Carro di Milano e la Festa sul Ticino

Testi di Enzo Fabiani, Giorgio Seveso, Elvira Cassa Salvi

Anni Ottanta e Novanta

La Rivoluzione francese

Testi di Piero Leddi, Anna Finocchi, Mario De Micheli, Michel Vovelle, Raffaele De Grada

Milano

Testi di Giancarlo Majorino, Eleonora Bairati, Franco Loi, Mario De Micheli

Figure

Testo di Giancarlo Consonni

Anni Duemila

Emigranti, sinopie e altre immagini

Testi di Mauro Corradini, Aurora Scotti Tosini, Raffaele De Grada, Francesca Pensa

Anni Cinquanta e Sessanta

Autobiografia al paese. La città

Testi di Mario De Micheli, Francesco De Bartolomeis, Raffaele De Grada, Armando Plebe, Antonello Trombadori, Pierangelo Soldini, Luigi Cavallo

Mario De Micheli

Un linguaggio preciso, dunque, definito, aderente: ecco il linguaggio che Leddi sta elaborando nella sua fatica d’artista. Niente fumo negli occhi, niente sofismi formali, ma un’indagine attenta, vigilata, sensibile del proprio discorso. C’è in questo giovane artista un pudore esemplare, quasi una reticenza, quasi una timidezza. Ma all’interno di questa sua attitudine, c’è anche un’ostinata volontà, quella volontà accanita che distingue l’artista dai divulgatori del gusto e della moda.

Leddi in fondo è un pittore autobiografico: è venuto in città dalla campagna e questo tema dell’incontro tra due mondi così diversi lo interessa profondamente per tutte le emozioni che in lui ha suscitato e per la storia di altri uomini che, simili a lui, hanno fatto e fanno questa strada.

Giunto da Tortona a Milano, egli rivive in sé il senso di un esodo tipico dei nostri giorni, e di ciò v’è una traccia nei suoi fogli e nelle sue tele, con quanto di poetico, di nostalgico, di inquieto e di spietato anche può nascere in una vicenda come questa.

Guardando i quadri e i disegni di Leddi ci si accorge dei vari motivi che guidano la sua ricerca espressiva. Talvolta il segno si fa asciutto, secco, quasi risentito; talaltra invece morbido; in un quadro la pennellata acquista un accento espressionista, in un altro si rivela cauta, misurata. Leddi sta filtrando i propri sentimenti, li sta mettendo alla prova. E questo fervore, questo fitto interrogarsi, è la garanzia del suo impegno, della sua passione per una pittura di cui l’uomo sia misura e sostanza.

(dalla Presentazione alla Galleria Alberti, Brescia, 1959)

Francesco De Bartolomeis

Leddi non cade nel luogo comune dell’alienazione né propone una consapevolezza da spettatore. Si salva dalla resa alla macchina e ai “mass media” attraverso la rappresentazione di una nuova organicità – quasi nuova fisiologia – che include gli uni e l’altra come relazioni umane e modi di vita rispetto a cui non abbiamo scelta. In particolare la macchina non si limita a essere un elemento figurale obiettivo o una caratteristica dell’ambiente esterno, perché piuttosto è una situazione complessiva che, attraverso una nuova percezione vissuta dello spazio, del tempo e delle forme, condiziona l’esperienza.

Possiamo parlare di una sorta di fisiologismo pittorico, sempre che si comprenda che questa penetrazione nell’interno ha valore per una definizione espressiva dello spazio, per la determinazione di un dinamismo, al quale è indispensabile appunto la tensione interno-esterno. Perciò non si tratta di un realismo (crudo, per giunta) che abbia ampliato il suo orizzonte includendovi quello che dell’“oggetto chiuso” non si vede. Anche il termine radiografia non è idoneo, perché può far pensare a una semplice operazione materiale.

Come per i futuristi, “lo spettatore sarà posto al centro del quadro”. Leddi condivide la necessità di distruggere l’atteggiamento contemplativo, lo star fuori, l’immagine senza tempo. Egli rappresenta, non narrativamente, un fatto; gli è indispensabile viverci dentro. Poiché sono fatti-eventi, cioè accade qualcosa, nella rappresentazione entra la dimensione temporale a caratterizzare la dinamizzazione dello spazio. E allora si tratta di spazio “vero”, vissuto. […]

Perciò la sua ricerca si spinge al di là del realismo di cui conosce gli equivoci. Egli vuole situare eventi organici nello spazio, arrivare a strutture essenziali di figure, di rapporti, di movimenti. Mostra apertamente quanta fatica gli costi il guardarsi da due pericoli: quello del riferimento naturalistico e narrativo assorbito dalla contingenza e quello di un’astrazione che, per assicurarsi l’essenziale, approdi a risultati poveri o semplicistici.

Mi pare che la ricca grafia, e talora perfino il “garbuglio”, una coraggiosa e accentuata coloritura, una figurazione che si impone con una inquietante presenza psicologica siano i fatti espressivi attraverso cui Leddi va maturando un suo stile.

(dalla Presentazione alla Galleria L’Indiano, Milano, 1963)

Raffaele De Grada

Leddi ha portato con sé dalla provincia – egli è del paese di Pellizza, presso Tortona – la purezza di un ideale e di un costume che stenta ad acclimatarsi nella giungla milanese.

Questa impressione che ebbi di lui quando lo conobbi non era semplicemente psicologica. Ritrovavo nel suo animo ciò che avevo intravisto nei suoi quadri e nei disegni. Avevo sentito che quei quadri tutt’altro che facili e “popolari” di lui, pur entusiasta nipotino di Pellizza, non avevano nulla a che fare con l’accademia astrattista e che si collegavano semmai alle radici della rivolta antinovecentista, che con l’astrattismo “storico” non ebbe nessun rapporto.

[…] Guardando uno dei quadri attuali di Leddi noi avvertiamo prima di tutto un senso di nobiltà, un distacco dalle forme comuni della pittura sia populista sia informale sia banalmente surreale. Questa nobiltà di forme in un’approssimazione coloristica quanto mai sorvegliata, assolutamente diversa dalle più facili suggestioni del naturalismo ma tanto pittorica da non cadere mai nell’irrazionale senza scopo, dà subito l’impressione di andare oltre alle più recenti soluzioni. Per ritrovare una simile dignità di composizione bisogna ritornare ai simboli del cubismo orfico e del futurismo di Boccioni, a quella virtù di ricerca, insofferente delle improvvisazioni.

Si sente che Leddi teme spaventosamente di cadere nel descrittivo. La sua polemica antiottocentesca si estende a tutte le forme appena appena descrittive che possono esserci nella contemporaneità. I quadri di Leddi sono così volontariamente fuori da questa tradizione che sembrano cartoni per una pittura murale simbolica. Come quadri di cavalletto, rompono gli schemi abituali. […] Questa diversità è contrassegnata dal fatto che Leddi non crede al quadro di getto, più o meno “dipinto” (da Pirandello a Dubuffet), ma ha fede nell’opera “grande” secondo l’antica tradizione delle arti liberali, con tutti i passaggi intermedi tra l’artigianato e la pittura.[…]

In questo senso Leddi è il tipico pittore che rivela la crisi contemporanea, crisi che investe prima di tutto gli intellettuali, che sono stanchi di rappresentare i valori tradizionali della vita borghese e non sentono tuttavia affacciarsi con la necessaria forza lirica valori nuovi, di una classe nuova. Leddi, per esempio, ha voltato le spalle completamente al paesaggio di natura, per quanto egli si compiaccia di essere erede di Pellizza, che fu un grande paesista lirico. A Leddi avviene quanto si può constatare in un regista come Antonioni: a furia di andare a cercare i significati più riposti di ogni minimo gesto, di ogni situazione possibile, si rischia di annullare il contenuto stesso e spalancare l’abisso del vuoto. […]

Ne deriva una specie di mitologia simbolica del reale quotidiano, qualche cosa di simile a ciò che fu in altri tempi il mondo di Holman-Hunt o di Burne-Jones, di Redon e di Rops, tutti artisti di crisi, tra il mondo sereno dell’Ottocento e un nuovo secolo di cui non si avverte che la parte interrogativa.

[…] Lo so che le cose non stanno poi così, che i valori esistono e sono da affermare. Ma come impedire che ognuno riparta da zero? Senza fare appello a retoriche che apparirebbero negative e scontate. Leddi è uno degli artisti più interessanti di questo piccolo gruppo. La sua strada può diventare indicativa anche per gli altri.

(dalla Presentazione alla Galleria della Sala di cultura, Comune di Modena, 1964)

Armando Plebe

La pittura di Leddi occupa una sua posizione originale, che si può intendere non tanto riconnettendola a una delle molte tendenze della pittura d’oggi, quanto riconoscendo la particolare e feconda prospettiva da cui essa si pone, la quale apre una via ricca di nuove suggestioni.

Alle sue radici stanno complesse esperienze culturali e di vita; però, più di altre, servono forse a individuarla tre sue componenti essenziali: in primo luogo l’esperienza di un tipo di psicanalisi diverso dalle solite ossessioni intimistiche e introvertite, bensì volta a comprendere nella loro sana, esplosiva fecondità i fatti primordiali della vita dell’uomo; in secondo luogo l’attenzione appassionata per la realtà fisica e naturalistica delle cose, la quale conferisce all’astratta simbologia psicanalitica una concretezza nuova (per cui se un nodo di tendini deve simboleggiare la tensione vitale, questo nodo diventa subito, in Leddi, un reale, quasi palpabile groviglio di fibre e arterie); in terzo luogo, infine, la trasposizione di questa psicanalisi concretizzata e vitalizzata nell’attualità del nostro mondo di macchine: per cui i simboli della vita organica sono visti sempre permeati da simboli e oggetti della meccanizzazione odierna, in particolare del mondo della motorizzazione, che travolge oggi la vita dell’uomo moderno.

Di particolare rilievo sono le tempere dedicate al tema della nascita. La decantazione del tradizionalissimo tema della maternità, e della retorica che su di esso si era impiantata, viene ottenuta da Leddi attraverso la triplice sua tematica sopra descritta, ottenendo immagini insieme intellettualistiche e vitalistiche, che richiamano, attraverso la fredda trasparenza di uno sguardo razionale, il caotico ed embrionale germinare della vita.

[…] Anche nelle altre pitture di Leddi compaiono, variamente congiunti, questi stessi elementi: così nel pastello Famiglia in auto sono visibili, attraverso un contorto gioco di linee, una donna in auto e una donna con neonato in braccio. E si veda, nel gruppo delle tempere grasse su tela, le Teste in sorpasso, che riprendono i temi dell’automobilismo. In queste ultime tempere è notevole l’impiego del colore ottenuto attraverso tecniche antiche, che danno il risultato di un colore scarno, pulito, timbrico.

E ricorderò infine, a tal proposito, come buona parte dei felici risultati ottenuti da Leddi siano dovuti anche alla sua lunga consuetudine di studio della pittura lombarda, in particolare della scuola leonardesca, che ha permesso alla prorompente modernità di Leddi d’impiantarsi su di una solida base di cultura pittorica.

(dalla Presentazione alla Galleria d’arte I Balestrari, Roma 1964)

Antonello Trombadori

Piero Leddi […] si è formato come pittore nel clima milanese del dopoguerra. La sua stessa età, pur non impedendogli di rimanere avvinto intellettualmente e moralmente dalla problematica del realismo quale si affermò nel nostro paese nel quadro dello sviluppo umano e ideale della rivoluzione antifascista, non gli consentì tuttavia di prendere parte al movimento realista se non in forma critica, e in un certo senso col vantaggio di trovarsi già fuori dall’area di quelli che del movimento realista furono prima le illusioni e poi gli errori. Rimane però il fatto che Leddi, lungi dal voltar bruscamente pagina, come accadde a coloro per i quali il realismo stesso era stato una formula intercambiabile anziché un momento della propria concezione del mondo, preferì una lunga isolata ricerca per tentare di approfondire, a suo modo, talune questioni espressive di rapporto con la realtà e di tener fede, a suo modo, al principio secondo il quale non può esservi all’epoca nostra prodotto artistico veramente rinnovatore che non sia il risultato d’un impegno della ragione, oltre che del sentimento e dell’inclinazione poetica.

È tuttavia interessante osservare come per Leddi la questione di fondo fu per lunghi anni non tanto quella dei “contenuti” quanto quella delle “forme espressive”. Tale questione gli si pose, però, in modo così ossessivo da diventare essa stessa il “contenuto” della sua ricerca. Non è stato infatti per Leddi puro e semplice lavorio d’aggiornamento e di “revival” avanguardistico l’interrogare tutte le forme possibili, sempre col maturato proposito di mettersi in grado di raccontare in pittura un fatto senza la mortificante ipoteca del descrittivismo e del gratuito simbolismo.

È così che Leddi si è trovato, a un certo punto del suo lavoro, nel fitto d’un groviglio plastico, libero, tuttavia, da ogni grado di parentela col groviglio e col magma dell’informale. Il suo groviglio era di ordine narrativo-realistico. Si trattava di saperlo sbrogliare per meglio scoprirne la intera logica figurativa, per renderlo idoneo ai fini scopertamente comunicativi che il pittore si proponeva.

“Per ciò che si riferisce agli intricati procedimenti delle scelte – mi ha scritto poco tempo fa Piero Leddi – posso dirti che rispetto al lavoro precedente mi sono prefissato di rappresentare più ‘plasticamente’: di rendere maggiormente il volume degli oggetti, stabilendo in teoria la destinazione delle luci e delle ombre, decidendo i valori dei colori ‘a freddo’: il rosso, il verde come valori di semitono, i gialli, gli azzurri come valori di chiari, i blu ed i porpora come valori scuri. Ho immaginato i primi piani per lo più in controluce per reagire ai telai, piatti e atmosferici, dei lavori precedenti”. Tale è stato il lavoro di Leddi da almeno due anni a questa parte ed è in un certo senso commovente il fatto che nella misura in cui Leddi si è interamente e consapevolmente impadronito di quel suo modo espressivo a metà allusivo e analogico, a metà freddamente rappresentativo delle apparenze visuali delle cose, nuovi contenuti poetici siano quasi spontaneamente affiorati dalla sua memoria, non tanto come autobiografia quanto come biografia e critica e canto di una più vasta condizione umana. Leddi è della terra di Pellizza da Volpedo, l’uomo che dipinse il Quarto Stato, che si uccise e che fu uno dei talenti pittorici d’avanguardia alle immediate spalle di Previati e di Boccioni. Leddi ha studiato a fondo Pellizza e certi suoi contrasti di luci fredde azzurrine col caldo dell’oro ricordano i primi coraggiosi accenni divisionisti del disperato maestro piemontese. Ma ben più che sul terreno delle forme Leddi appare legato alla memoria di Pellizza sul terreno del rapporto che questi ebbe con la vita: di canto dei suoi valori, di amara consapevolezza delle sue preclusioni e dei suoi traumi.

(dalla Presentazione alla Galleria La Nuova Pesa, Roma 1966)

Pierangelo Soldini

Viene per ogni artista, ed è venuto anche per Piero Leddi, il momento di un dialogo più aperto: il quale non sempre, ma nella maggior parte dei casi, coincide con la maturità sia degli anni che dell’esperienza. Questo momento, di importanza fondamentale nella vita dell’artista, il quale ne è perfettamente conscio, consiste nella ricerca di un maggiore spazio figurativo e di una maggiore libertà espressiva. Si tratta di una carica – per chi ovviamente, come appunto avviene per Piero Leddi, non sia andato vagando di anno in anno dietro alle varie mode, ma abbia dato vita a un mondo suo, suggerendo ad altri idee e soluzioni – a lungo contenuta e repressa, sia per timore sia per pudore (due sentimenti propri della stagione delle ricerche) che ha bisogno di sprigionarsi, di espandersi e, in alcuni casi, persino di esplodere. Nel caso particolare di Piero Leddi questa esigenza non dico di rottura – ché di rado ho incontrato un pittore coerente e ostinato quanto lui nella ricerca e nell’approfondimento – ma di apertura, è assai significativa, perché chi conosce Leddi sa quale accumulo segreto di calore umano egli porti dentro di sé. Un calore umano che, un po’ per l’asperità della natura stessa dell’artista, un po’ per paura di certi abbandoni, e un po’ a causa di contraddizioni, si è manifestato sino a ora sotto forma di una sottile ma non mai compiaciuta violenza dell’oggetto. Amare l’oggetto (nel caso specifico l’uomo, la bestia, l’albero: l’uomo-mucca e l’albero-uomo) ha significato insomma per lui non solo sviscerarne ogni intima fibra – e la curiosità in questo caso è sempre un fatto doloroso se non crudele – ma talvolta bistrattarlo, il che è proprio di chi teme a quali irrimediabili guasti si possa andare incontro con un incontrollato abbandono (oppure con un incontrollato entusiasmo). Ma ora Piero Leddi ha nuovi mezzi per difendersi da questo pericolo e nello stesso tempo per non ritrarsi di fronte al bisogno di comunicare: l’ironia, se non addirittura, quando occorra, il sarcasmo. L’uomo con tutte le sue sofferenze, con tutte le sue umiliazioni – l’esperienza sarda è stata molto importante per l’artista – con tutta la sua scorza terrena è sempre, per Leddi, al centro del mondo: ma Leddi non cadrà mai nell’errore di una strenua e incontrollata apologia, conoscendone anche i lati meno eccelsi, o addirittura la cupa miseria morale, e non rinunciando perciò a quella che oggi con una espressione abusata viene definita la denuncia. Una forma d’affetto anche questa? Sicuramente. Una forma d’affetto, più bisognevole di solidarietà anche per uscire dal cerchio chiuso di una esasperata solitudine, ma certa.

(dalla Presentazione alla Galleria del Minotauro, Brescia, 1967)

Luigi Cavallo

La proporzione incognita che si può cogliere nella sequenza cronologica dell’opera di Piero Leddi, e che inizialmente disorienta, deriva dalla posizione particolare in cui si svolge il suo lavoro. È una zona posta al limite fra la struttura e il disfacimento, fra la mimesi formale e la citazione mentale, dove spesso non è possibile sondare analiticamente quanto concorrano le emozioni e l’istinto da una parte o l’impegno costruttivo dall’altra, nel risolvimento del quadro. S’è avanzata l’ipotesi di una possibilità di analisi del valore reale (non neofigurativo) delle immagini proposte da Leddi, quindi del loro peso e del loro volume coerente e sociale, da rapportarsi in modo distinto da ciò che evidentemente procede verso l’astratto, poiché è su questo cardine di contrasti e di negazioni che finora s’è compiuto il discorso di Leddi.

Senza arrivare all’ironia o alla crudeltà – giungendo tuttavia vicino a simili atteggiamenti nel confronto del materiale su cui operava –, Leddi è sembrato via via mandare a male ciò che gli suggeriva di troppo materiale il suo rapporto sulle cose, trascurando in modo crescente la cultura figurativa, a rigore di un nuovo ordine da lui intuito proprio nella zona liminare di cui si diceva.

[…]

L’attenzione verso il movimento lo portava a un disegno nervoso, in qualche occasione sfuggente, e la superficie dei quadri veniva affiorando in modo travagliato, o rimaneva embrione l’idea del pittore distratto in una complessa sequenza di termini da tener presenti. Le opere più recenti rivelano un nuovo disporsi degli interessi di Leddi, più attento non solo alla risoluzione della figura, ma anche dello spazio in cui essa agisce e si evolve. Dopo l’aderenza totale alla vita, comunque si manifesti e in se stessa intesa, il pittore dà luogo a una fase che si potrebbe dire contemplativa; riguarda un vecchio problema estetico dell’interno-esterno, ma rinnovandolo nelle sue varie accezioni di rapporto fra oggetto e ambiente, fra creatore, oggetto e fruitore dell’opera.

Leddi non si ferma a considerare solo il motivo superficiale di un atteggiamento effettivamente mutato fra l’artista e il mondo, ma ne scava le ragioni in profondità, cercando il “come”, sul piano formale, di questa mutazione. Giunge, così, a delle proposte di linguaggio che mantengono costanti alcune basi di intuizione lirica, e si manifestano in una sempre maggiore intensità evocativa.

Entro questo schema di ricerca sono ubicate le sezioni notomizzate delle sue costruzioni umane, dell’uomo organizzato nello spazio in una moderna possibilità di sopravvivenza: come involucro svuotato di fronte a quelle incombenze, a quei drammi, si vorrebbe dire, che non sono più esterni ma, nel travaglio del tempo, sono divenuti le sue fibre costituenti.

Nelle tempere grigie l’individuo è prodotto in una stasi che non si sa fino a che punto sia sonno e fino a che punto “morte”: qui vi è la nuova disposizione di Leddi che vuol cogliere l’equilibrio definitivo delle forme, descritte non più nel fuggevole, fluttuante progresso esistenziale, ma nel loro valore plastico, nel loro peso.

L’azione, la condizione esterna sembra ormai completamente esperita nel lavoro precedente, e nella nuova testimonianza figurativa, offerta con la solita proporzionalità pittorica, se non col medesimo impeto, si apre un nuovo rispetto per l’impianto spaziale di quei corpi che rimangono al centro della sua narrazione.

(dalla Presentazione alla Galleria Cantini, Piombino, 1967)

Anni Cinquanta e Sessanta

Fausto Coppi 1964-73

Testi di Piero Leddi, Antonello Trombadori, Duilio Morosini, Franco Loi, Nicoletta Colombo

Piero Leddi

Nel gennaio del 1960 muore Fausto Coppi. Provo un’emozione inaspettata. Eseguo alcuni disegni in memoria. […]

Nel 1966 tengo una personale alla Galleria La Nuova Pesa di Roma, con presentazione di Antonello Trombadori. Le opere esposte sono prevalentemente dedicate alla vita dei fratelli Coppi. […]

Gli appunti che avevo accumulato per rappresentarli si basavano sull’eliminazione della retorica giornalistica, con la consapevolezza di sapere bene, per ragioni di conterraneità, quali fossero stati gli squallori della loro vita da gladiatori. Tentavo di ricomporre il senso della loro fatica stravolta e disumana, immaginando ad esempio quello che potevano pensare, nelle allucinazioni e stordimenti delle canicole estive, sulle strade francesi, o subito dopo il giro d’Italia.

Gianni Brera vede Fausto con l’espressione di un pesce che beve plancton: bocca storta, semiaperta per asfissia.

Oppure, Fausto come il mito di Fetonte, che è un mito padano: cavallo-bici e Fausto, che cadono dal cielo.

Il duello Coppi-Bartali: rappresentabile in rotazioni di pedivelle e diagrammi di avanzamento, di un tempo astratto e meccanicistico.

Altri appunti scritti: testa di Fausto, dettagliata, schiena e manubrio, solo le sagome, insistere su gambe e pedivella (leva e rotazione).

(da Piero Leddi. Dipinti e disegni, Charta, Milano, 1994)

Antonello Trombadori

Le tele di Piero Leddi rivelano, a prima vista, un pittore esatto, armonioso, tutto proteso a verificare l’esito del rapporto fra disegno e colore, e certamente assai preoccupato di non lasciare nulla al caso, di essere ad ogni costo in par con l’immagine rispetto al modello nella fantasia. Ho usato non a caso la parola esito e non la parola effetto. Proprio perché di un eventuale effetto che fosse generosamente ma imprevedibilmente nato dall’azione pittorica nel suo farsi e non fosse corrispondente all’esito previsto, Leddi non saprebbe come appagarsi. Un pittore mentale, dunque. Il che non significa privo di emozioni e di abbandoni lirici. Al contrario: l’incentivo poetico di Leddi è, a mio avviso, essenzialmente lirico e di quel particolare lirismo che deriva dall’amore per la natura e per i sentimenti immersi nel paesaggio naturale.

[…] Nelle tele dedicate alla favola di Fausto Coppi Leddi ha certamente raggiunto nel modo più chiaro la comunicazione poetica dei suoi conflitti. Ha ritrovato nella favola di Fausto Coppi i motivi più profondi e dolenti della gentilezza e delle nobiltà umane ridotte in frantumi dall’urto brutale così con il pregiudizio come con le asperità dell’esistenza e della natura. Da quei frantumi di gentilezza e di nobiltà che Leddi ha saputo isolare nel paesaggio quasi come relitti d’un antico modello di bellezza un filo si sdipana al quale il pittore ci invita ad aggrapparci per uscire dal labirinto.

Sta in ciò la modernità e la validità dell’attuale pittura di Piero Leddi.

(dalla Presentazione alla Galleria L’Indiano, Milano, 1964)

Antonello Trombadori

“Ho dipinto in maggior parte delle ‘cadute’ per ciò che vuol dire ‘andare per terra’, ‘sbattere la testa per terra’, per ciò che ti casca addosso: un aratro, una bestia o una bicicletta (simboli). Non è per denuncia né perché so che se caschi difficilmente qualcuno ti tira su, ma è per raccontare senza distacco tutto il ‘rotolare’ che abbiamo fatto da un paese all’altro, da cinquant’anni, cambiando mestiere e adattandoci ai nuovi senza amore, come un destino ineluttabile. Ho tentato di raccontare la storia dei Coppi non come ‘favola’; andava bene la parola ‘gentilezza’ che tu avevi detto. Gentilezza di gente timida e buona, ridotta in frantumi per gioco. Sono convinto che corressero i Coppi per una fame vecchia che portavano nelle ossa di contadini decalcificati e per uscire da questa condizione. Quando è morto Fausto io ho pianto a Milano; ancora oggi mi commuovo a pensarlo e a vederlo nelle vecchie foto. Non che abbia mai pensato a lui come ‘eroe’; credo proprio che sia per una sorta di ‘gentilezza’ andata in frantumi, con la quale io identifico tutta quella gente degli esodi dalle campagne, degli inurbamenti, delle metamorfosi contadine”.

Così come scrive, Leddi ha tentato di dipingere, trapassando da momenti razionali a impeti lirici a sommessa commozione a duro scontro con l’oggettività del reale. […] è un omaggio autentico, vitale alla pittura in quanto forma indispensabile per conoscere, per comunicare, per rompere barriere. Siamo, come si vede, sull’altra faccia della luna. Hic manebimus optime.

(dalla Presentazione alla Galleria La Nuova Pesa, Roma, 1966)

Duilio Morosini

Leddi viene dalla terra padana ed è da essa, ancora e sempre, che sono calamitati le sue idee e sentimenti. C’è qualcosa di lancinante in quest’antitesi. Perché Leddi vuole dominarne tutte le sfaccettature (dire “tutto”), e, nell’atto di farlo, vive il rovello dei mezzi espressivi cui “aggrapparsi”. Di qua, la sintesi boccioniana (si vedano certi bozzetti); di là l’espressionismo panico, con innesti surreali.

Oggi è incline al secondo. Ma con quali dubbi: come se vi fosse costretto, dall’affollamento delle idee, dall’urgenza di parlare. Getta luce su questa tensione, il raffronto tra le varie versioni “narrative” – convulse, e, rispettivamente, serrate – della fine di Fausto e Serse Coppi.

Partiamo da una delle prime, di maggiori dimensioni. Lo sguardo va dal vertice alla base del quadro. La ruota ingigantita, vista di scorcio, coi suoi raggi, come un “astro”. Il nodo della catastrofe, con la bicicletta sfasciata, vista come una fantasmagorìa di linee paraboliche, tubolari – tra cui si impigliano e si esasperano gli arti dell’uomo sconfitto. La fine della caduta, tutta riassunta dal corpo riverso, il frammento della ruota dentata, il bucranio “picassiano” con le corna metalliche. Ebbene, in tutto quest’orgasmo (ingorgo di memoria visiva del molteplice e di tensione mentale a racchiudere il senso della vicenda in simboli eloquenti) il vero fulcro – il momento di verità – nel quadro risalta proprio da questo suo “finale”. Dice di aver visto, nei Coppi, i contadini inurbati per stanchezza del loro stato avvilente, e, nella loro “caduta”, nulla di trascendentale; anzi, un fare brutalmente i conti con l’origine, con la terra.

Ma torniamo all’inizio del ragionamento, sugli assilli e contraddizioni dell’artista; è là, dove egli “tocca terra”, come se rivivesse modernamente il mito di Anteo, che la sua pittura tocca davvero – oggi – il punto di maggiore consistenza (pur non rinunciando al racconto per associazioni mentali). La vacca – tutta muso, ossa, corna, coda, in un unico scorcio – che sbuca accanto al corpo disarticolato dalla dura caduta (La caduta del campione). L’uomo finito, accanto alle lame dell’aratro. L’uomo prostrato, ingabbiato tra assi che sanno, insieme, dello steccato, del canneto e della sbarra di un immaginario carro, affiancato dal testardo avanzare del bue.

(Paese Sera, Roma, 3 febbraio 1966)

Franco Loi

Castellania, il paese di Coppi, è sul fianco del monte Giarolo. E l’appartenere di Leddi a un paese, a un monte, dà il senso di un destino collettivo, di individuali avventure che sopportano il peso di una storia e di una cronaca. Il pittore del “campione caduto” e della “morte del campione” ha la follia di incidere un’epica perché ha coscienza di scoprire una propria storia: guardare questi occhi stravolti, questi torsi d’albero spezzato, queste scapole magre: vedere questi albereti, i sereni di carta, i vomeri come ossa sulla terra: pensare questa pittura dà dolore, si è coinvolti nella visione crudele di esistenze che segnano nella fisionomia la paura delle cose ignote e senza scopo. […] Nel racconto di Leddi, Coppi, un nome che è stato scritto sugli asfalti, su cementi, sui cartoni, gridato da bocche esaltate da mezza Europa, scritto in inchiostri che echeggiano sul vasto mondo, questo Coppi di Castellania, garzone di bottega e provinciale d’Appennino, questo Coppi è un uomo tormentato e solo, un valligiano che fatica e cade, un corpo che si spezza su una terra avara di un qualsiasi cielo.

(dalla Presentazione al Salone dei commercianti, Tortona, 1966)

Nicoletta Colombo

La moderna tipologia rappresentativa di uno dei miti della contemporaneità, come quello di Fausto e Serse Coppi, strettamente connessa nell’opera di Piero Leddi con i significati di tradizione e di evoluzione sociali e di costume, è da rapportare alla cultura legata al mondo rurale di origine, scossa dai sismi conflittuali del cambiamento epocale. Occorre considerare l’ottica antinaturalistica con cui l’artista, pur sempre legato al tema della figurazione e proteso alla sua trasfigurazione, ha tradotto la comunicazione di un vero “esistenziale” nella ricca produzione di oli, disegni, acquarelli, acqueforti e litografie. […]

Leddi addita esplicitamente una chiave di lettura interpretativa dei disegni, delle incisioni e del suo lavoro sui Coppi e comunica la trasfigurazione umanizzata della vita contadina, quella che aveva caratterizzato il clima dei suoi anni giovanili, vissuti all’insegna della consapevolezza amara dell’esistenza degli umili, in perenne lotta con una natura che li sottoponeva ad una parsimonia di mezzi quasi filosofica, alla scarsa resa a fronte di immani fatiche, alle cadute indotte dalla velocità dell’evoluzione culturale post-bellica, che era sfociata inesorabilmente in uno sconcerto finale: l’avvenuta consunzione del senso e del ruolo delle terra e della vita collettiva legata alla campagna […]

L’apparire del tema della caccia, rappresentata dagli animali che spesso accompagnano la raffigurazione di Coppi, non costituisce solo un esplicito riferimento all’arte venatoria che fu la passione di Fausto e che lo condusse alla morte, ma traduce in chiave simbolica il sogno collettivo, in quanto vagheggiato più o meno da tutti i contadini dell’alessandrino, di emulare la società borghese, di assumerne almeno uno degli aspetti peculiari, quella caccia che si identificava all’epoca con il riscatto dalla miseria e con l’evasione dalle asperità esistenziali. […]

Immagini zoomorfe ed umane che si ibridano in una sorta di “zoologia fantastica” alla Jorge Luis Borges di Manual de zoologìa fantastica (1957), sintomo sofferto della crisi che ha percorso il ’900, nella cui cultura il ricorso alla rappresentazione dell’animale traduceva un disagio psichico collettivo, un tentativo cioè di addomesticare i mostri dell’anima.

Leddi onora costantemente i principi della figurazione in una ricerca che li libera dalla rappresentatività naturalistica poco organizzata e li conduce allo studio del segno, al governo della forma nella sua struttura rigorosa, pulita, talvolta classicamente ingabbiata nell’equilibrio tra le impalcature, tra i ritmi di pieni e vuoti e tra le geometrie delle linee, assetti di regole che il dolore delle acquetinte o le macchie tragiche tra i grovigli mai risucchiano nel gorgo dell’irrazionalità. Non per nulla l’artista ha concepito l’incisione, in cui ha svolto una consistente mole di lavoro, come metodo eccelso di studio, di ricerca e di scoperta, conducendo il segno a lasciarsi guidare verso soluzioni che traducono in un tracciato agile, ora differenziato in gamme sfumate ora aggressivo eppure controllato con sapienza, le luci e le ombre, le sensazioni e l’indisciplina volutamente inserita nel momento emotivo e poi riportata al controllo espressivo-costruttivo.

(da Fausto. In memoria di Fausto Coppi 1960-2010, a cura di Gianpaolo Ormezzano, Fare Edizioni, Novi Ligure, 2010)

Anni Settanta

Teste 1967-70

Testi di Piero Leddi, Francesco De Bartolomeis, Mario De Micheli

Piero Leddi

Pensavo, nel 1966-67, che non avrei teorizzato la pittura e neanche progettato troppo, che era tempo di sviluppare pratiche e tecniche nel senso del mestiere. Avevo esaurito delle possibilità formali: copiavo dalla natura quello che vedevo con gli occhi e la simbologia che sperimentavo era slittata nell’araldica e nei tarocchi.

Ero incapace di cogliere il senso delle strutture del corpo umano, per gli aspetti fisionomici che fanno distinguere un essere dall’altro semplicemente dal modo di camminare, o perché su una faccia si accumulano plasticamente le biografie degli avvenimenti: cene, sonni, bugie, schiaffi.

Ero partito da uno spunto un po’ comico – quello di registrare i gesti di consuetudine per la manutenzione di una testa, come radersi, pettinarsi, introdurre un cucchiaio in bocca, mettersi gli occhiali, lavarsi i denti ecc., insomma il cumulo dei gesti quotidiani limitati alla testa-faccia. […]

Nel 1966 faccio un viaggio in Germania est: Lipsia, Dresda, Buchenwald, Muro di Berlino.

L’emozione per la testa colpita nasce durante la visita a Buchenwald, vedendo gli apparati di esecuzione (sparavano alla nuca da uno sportellino) e ricordando anche i fotogrammi di Kennedy a Dallas.

L’idea interferente è quella di forze esterne, che traumatizzano. […]

Studio l’argomento, mi interesso a libri di medicina: anatomia topografica, radiografie di traumatismi cranici, ecc.

La testa, come dice De Bartolomeis, è il simbolo della centralità organico-fisiologica individuale. La mia intenzione è di fondere ritmi organici con ritmi meccanici. Seguo questa delimitazione, per dare un carattere sistematico alla ricerca espressiva: desiderio di uscire dal naturalismo, ma anche di evitare un astrattismo non commentabile. […]

Descrivo tutto un repertorio della meccanica e della resistenza materiali, ad esempio presso-flessione, flesso-torsione, taglio, oscillazioni, decomposizione delle forze, ecc. E tendo ad una maggiore essenzialità geometrica, come se si trattasse di risolvere un teorema. Adotto un colore non naturalistico, senza ombre, con poca plasticità.

Decido anche di usare segni di convenzione, al modo dei disegnatori industriali […].

Per la luce adotto questa soluzione: una sorgente luminosa scende bianca dall’alto e mangia le parti alte degli oggetti; un’altra (tipo riverbero) sale dal basso, rossa di terra; altre due, filtrate da eventuali vegetazioni, si muovono orizzontalmente, una da destra e una da sinistra, mentre controluce l’ombra rimane al centro, ottenuta da ciò che le luci hanno lasciato.

Risultati ambigui come sempre, in una quantità cospicua di studi e incisioni, tra cui Sei teste, lito e intaglio, che stampo da Giorgio Upiglio.

Il senso che mi è rimasto di questo lavoro è di avere desiderato di cogliere il cambiamento di forma che avviene dopo una ferita e durante la rigenerazione, e di aver tentato di conoscere l’esterno dall’interno.

(da Piero Leddi. Dipinti e disegni, Charta, Milano, 1994)

Francesco De Bartolomeis

Non è un ancoraggio fisico-dinamico (la banalità dell’uomo degradato a macchina) risolto in termini prevalentemente geometrici quali simboli di forze, di vettori, di resistenze: è prevalente invece l’inerzia organica di tutto questo, la risultante come incontro di ritmi organici e di ritmi meccanici. Di qui sollecitazioni con effetto di trauma, un coinvolgimento psicopatologico. Le teste sopportano incidenti. L’artista le esplora, blocca o dinamizza i loro rapporti interni, ingrandisce le loro particolarità per scoprire aspetti che vanno al di là della consueta riconoscibilità formale.

L’ambiguità ha trovato un centro, e questo centro viene approfondito, tenuto lontano da distrazioni narrative o aggiuntive. Tutto lo spazio di vita è ridotto a ciò che l’uomo riesce ad avvertire. La testa è il massimo di vitalità e insieme il massimo di astrazione. L’essenzializzazione geometrica accetta di essere spuria e contraddetta perché non implica un distacco da una complessa vitalità organica, una frigida precisazione di immagini, una facile elusione dell’intrico e del groviglio di esperienze reali. L’unilateralità razionale è la cosa più lontana dalla ricerca di Leddi.

Pertanto ci sembra di poter interpretare la sua produzione più recente come un originale e contrastato tentativo di difesa della figurazione e non come una improvvisa rottura della ricerca precedente, per volgersi, senza una vera convinzione, a soluzioni tendenzialmente astratte. Tale difesa non si esaurisce nell’ambito formale perché piuttosto riguarda la congruenza con eventi vitali all’interno di una situazione contraddittoria che non maschera e non nasconde ambiguità debolezza insicurezza. Una situazione dunque penetrabile e aggredibile da tutte le parti e che tenta di serrarsi in se stessa per sostenere l’urto. Perciò gli elementi geometrici hanno una tensione vitale, sono elementi vivi che non dissimulano la loro origine organica e la sofferenza che tale origine comporta. Proprio il rapporto tra ritmi organici e ritmi meccanici determina una situazione ambigua. I primi danno forza ma insieme portano alla dissoluzione. Ci sono perciò dolorosi impatti, traumi con vari effetti. Proprio per il suo collocarsi in punti di crisi, la ricerca di Leddi è ben diversa dalle tante esercitazioni sul tema della macchina e del meccanico che pretendono di valere come sostanziali aggiornamenti visuali ed artistici.

(da Francesco De Bartolomeis, Piero Leddi, Loescher, Torino, 1970)

Mario De Micheli

L’attività “grafica” di Leddi non ha mai rappresentato per lui un lavoro marginale. Lungo tutto l’arco di questo periodo, con accanita passione intellettuale, egli ha riempito d’immagini migliaia di fogli: per capire, per capirsi, per disarticolare e articolare i motivi della realtà per analizzarne le situazioni, per definirle per tradurne le connotazioni.

È raro trovare un artista che abbia vissuto e viva la propria dimensione storica e individuale con tanta tensione morale, con tanto inquieto assillo.

Leddi non è certamente un pittore alla ricerca di una formula di comodo, esorcizzante e consolatoria. I poli della sua dialettica si collocano nella contraddizione tra le sue immediate origini contadine e la violenza dell’immigrazione dentro l’ostile contesto della società urbana. Si può dire che ogni sua opera reca i segni di questo dissidio, di questo reversibile odio-amore; di questa impossibilità della coscienza a mantenersi nell’arcaica condizione della “terra” e al tempo stesso di questa difficoltà ad inserirsi nel “gioco” aspro, difficile, insidioso della “città”.

Il fascino e la ripulsa agiscono simultaneamente in lui nei due sensi, cosicché nostalgia e rifiuto, desiderio e diffidenza, critica ed elogio convivono all’interno dei suoi umori e delle sue inclinazioni, costituendo i termini della sua poetica e soprattutto il carattere, la fisionomia del suo esercizio espressivo.

Non è un caso che Leddi, partito da una tematica rurale vi sia oggi riapprodato. Si guardino infatti gli “studi” per la morte di un contadino, in cui egli, mettendo a profitto il duro tirocinio di linguaggio di tutti questi anni, ritenta la via del racconto e dell’apologo.

Tra quella partenza e questo arrivo, si pongono i temi degli amori in automobile, delle discussioni tra intellettuali, i temi della caduta e della morte del campione sportivo, quelli aggressivi della famiglia e i temi della repressione, di cui la sequenza delle teste colpite è indubbiamente il risultato più alto. Leddi mescola irritazione ed elegia, rivolta e dubbio, spirito epigrammatico e abbandono fiabesco, antidoti e veleni in un continuo ricambio di modi, di ricerche, di affermazioni graficamente evidenti e di negazioni esercitate sulla qualità che forse gli è maggiormente congeniale: la qualità, appunto, di una “scrittura” scattante e tagliente.

Chi ha cercato d’interpretare Leddi in maniera diversa è andato fuori strada. La storia di Leddi va letta nel processo formativo della generazione post-realista di Guerreschi, Romagnoni, Ferroni, Bodini. Perché gli si dovrebbe inventare una storia diversa e perché, soprattutto, per mere ragioni di gusto, sia pure travestite di ragioni critico-scientifiche, assegnargli una direzione opposta da seguire?

Ora Leddi è qui, a ribadirci la più sicura autenticità del suo itinerario, la sua scelta a non tradire se stesso pur nella complessità delle esperienze passate.

(dalla Presentazione alla Galleria L’Agrifoglio, Milano, 1972)

Anni Settanta

Simboli e metafore

Testi di Piero Leddi, Giovanni Mattana, Virginio Giacomo Bono, Franco Loi, Davide Lajolo, Luigi Carluccio, Gianfranco Bruno

Piero Leddi

All’inizio degli anni settanta tento di ricostruire figure con strutture intere e comincio racconti milanesi, antichi e contemporanei. Studio l’epoca della peste, i quadroni cosiddetti di S. Carlo, dei pittori Cerano, Procaccini, Cairo ecc., insomma il Manierismo lombardo, il processo agli untori. Il tutto incrociato con le mie autobiografie famigliari, ricordi del paese, riprese di temi coppiani.

Esco da un periodo di ricerche formali, che ora utilizzo per questi progetti: reinterpretare la vecchia “coda di paglia” della cultura milanese che è la storia della Colonna infame, Verri, Manzoni, Beccaria. Mi sono di riferimento le opere in scultura di Floriano Bodini, soprattutto quelle riguardanti temi religiosi.

Con Bodini ho avuto un lungo sodalizio. Con il ritratto del Papa del 1968, scultura lignea, Bodini indica in modo originale una nuova strada per interpretare in chiave moderna l’arte religiosa o sacra, in termini espressionistici, e con una posizione critica verso il clero stesso.

Condividevo l’ironia e il sarcasmo. La scelta della rappresentazione dell’antieroico, intesa anche come malattia e debolezza.

Era giusto opporsi al Novecento plastico e celebrativo, e in modo quieto descrivere l’esistenza normale, intessuta anche di sgradevolezze e malattie.

Questa premessa serve a giustificare un momento di interessi particolari, culminati nella mostra personale che ho tenuto alla Galleria Solferino di Milano nel 1973, che avrei voluto intitolare “Peste” – se non fosse stato per la sgradevolezza che già le opere dimostravano in se stesse.

Come ho detto prima, era mia intenzione parafrasare la peste borromaica con la situazione milanese degli anni settanta.

Dei titoli principali voglio ricordare:

Il miracolo della bambina, dal quadrone del Cerano. La scena si svolge dentro un tempio; al centro la bambina storpiata. Con fili invisibili S. Carlo dalle nuvole del Paradiso la raddrizza. La precedente iconografia era quella delle stigmate di S. Francesco che gli venivano inviate dal Bambino crocefisso.

S. Sebastiano, mitico kuros milanese, oltre che patrono di Milano, giusto per miracolo in epoca di peste. Anatomia iscritta in sei cerchi con ombra centrata in controluce.

Giangiacomo Mora, l’untore principale della Colonna infame.

Il carro di Milano, parodia della famosa stampa che descrive il supplizio del Mora e del Piazza, rei di essere gli untori responsabili della peste.

Era nelle mie intenzioni mischiare l’architettura milanese con la ricostruzione di un carro tirato da buoi. Giangiacomo Mora e il Piazza che vengono condotti alla Vetra, legati su delle sedie, schiena a schiena.

Per una parodia sicuramente esagerata, per eccesso di ironia, ho sostituito ai protagonisti degli “immigrati”: io, con parenti e amici.

La grande vacca. Nasce da un racconto-sogno, di una vacca al pascolo e di una lepre e una biscia, quest’ultima attratta dal latte. Rami di fascine e foglie per terra, luna di giorno, sole che va e viene.

Ho pensato ad un telaio di ossa, ricoperto dalla pelle.

Festa sul Ticino, in realtà la tragedia di Seveso.

Espongo tra le altre opere il trittico Bifolco, Mungitrice, Capraio.

Da questo momento in poi comincio a sviluppare simboli classici di mitologie astronomiche, temi della mitologia classica, liberamente, per ritrovare simboli attuali.

(da Piero Leddi. Dipinti e disegni, Charta, Milano, 1994)

Giovanni Mattana

Leddi non cede alla lusinga della ripetizione. Il risultato è visibile non solo nella coerenza all’interno delle singole opere ma sul lungo periodo dove, pur nell’alternarsi dei cicli e dei momenti, è riscontrabile una sostanziale continuità: così l’analisi del linguaggio mette in mostra momenti plastici di alta potenzialità espressiva (come nelle maternità o nelle teste) e momenti di accentuata e sofferta predominanza del segno-linea, nei quali l’uso di un linguaggio puntuto sembra far predominare la forza dell’irrazionale ed in cui il conflitto, sempre presente, pare risolversi nella sconfitta, nell’impotenza, nel negativo (si ricordino le cadute, le discussioni, gli amori in macchina).

Caratteristica costante e saliente del suo linguaggio è la costruzione di idee-immagini che viene ottenuta attraverso una ricerca arrovellata e continua (ne è testimonianza una cospicua mole di disegni) e che giunge, con mezzi semplicissimi, a risultati di straordinaria sintesi espressiva (ne sono esempio tipico alcune maternità).

[…] È naturale allora che egli veda l’uomo come il crogiuolo obbligato di tutti i conflitti e che l’uomo diventi il protagonista della sua pittura. Ma quali conflitti specifici? Leddi recepisce con particolare intensità quelli connessi ai rapporti familiari più intimi e al loro legame ombelicale col profondo: si pensi ai temi “nascita”, “famiglia”, “deposizione famiglia”, “cena di famiglia”, si pensi alla ricchissima gamma di implicazioni racchiuse nel polisenso delle figure di maternità (come non riferirsi alla psicologia del profondo, alla dialettica del rapporto madre-figlia, all’amore-odio, alla libertà-tirannia, a quei rapporti familiari di cui si evidenziano tutte le possibili ambiguità?). Ma il conflitto familiare si dilata a quello interpersonale, a quello del vivere civile: l’uomo creatore-vittima, l’uomo fratello-nemico, il prossimo-straniero, la volontà e l’impotenza, la discussione e l’incomunicabilità, la speranza e la delusione: ne sono testimonianza, sempre in chiave problematica, i temi della “discussione”, “discussione nella trappola”, “tram”, “amore in macchina”, ma anche temi più recenti come i “miracoli di S. Carlo – la nuova peste”, “la deposizione”, “Sant’Anna”; questi ultimi temi, in cui è visibile una rilettura del Cerano e di Leonardo, testimoniano anche, a loro modo, come il problematicismo di Leddi sia storicizzato non solo nel senso di una continua coscienza della tradizione pittorica.

[…] Talvolta il conflitto tende a risolversi in favore dell’inorganico, accentuando i contenuti di pessimismo e di impotenza sia in termini di forme che di colori, ma in altri momenti, specie in quelli di predominanza del colore-forma-superficie (sembra quasi, nell’attento Leddi, un recepire la lezione Matisse-Poliakoff) si giunge ad una personalissima risoluzione di più pacate idee-immagini.

(dalla Presentazione alla Galleria L’Incontro, Vicenza, 1972)

Virginio Giacomo Bono

Lo scandaglio nei recessi del subconscio affonda senza remore. “Quello che intendo fare è ubbidire ai miei bisogni poetici muovendo dall’irrazionale al razionale”; e parallelamente si muove la ricerca espressiva con meditati appoggi teorici: “Dipingere è un’operazione di levare e di mettere. Il mettere deve essere inteso come il togliere e viceversa. Spesso una parte prevale sull’altra creando lo squilibrio rispetto ai valori di unità e di sintesi espressiva”, e ancora: “La convinzione sul soggetto mi deve portare a una sintesi-purificazione-ripulimento del linguaggio”.

Si scopre nel fondo psichico una realtà di traumi che lo scontro con la realtà acutizza fino alla nevrosi: e dal ’61 la resa in chiave espressionistico-luministica fa ricorso a una singolare simbologia psicanalitica e tecnologica. Le forze dell’irrazionale prorompono su direttrici istintuali, di vitalismo fisiologico-organico e si scontrano nelle strutture del preordinato, del razionale, del meccanico […]. Così gli urti si sommano e le immagini si contrappongono, si sovrappongono, si complicano, con contrasti cromatici che vanno dai timbri caldi ma sempre un po’ malati degli ocra, dei rosa e dei rossi ai verdi marcescenti ai gelidi azzurri. Le stesure peraltro sono magre, artefatte, irreali, subordinate sempre a un segno incisivo ancorché instabile che collega la memoria al presente, le forze oscure alle lucide chiarificazioni intellettuali. E come un effetto coinvolgente immette o libera forze, raccorda i fondi coi primi piani, le immagini deformate o allusive con lo spazio […].

Ogni mito viene smantellato: la satira degli intellettuali ha una carica distruttiva quasi picassiana: è un germogliare di presenze inquietanti ma gelide fredde impersonali con punte di spasimo angosciato in una luce cruda che imprigiona o disperde gli elementi di un racconto ormai dissociato.

(da V.G. Bono, Realismo “critico”. Il divenire di una poetica, 1972)

Franco Loi

Piero Leddi aveva intenzione di riassumere questa sua ricerca, complessivamente, col nome di “peste”, poi, più sottilmente, di malattia. Ha voluto evitare l’argomento negli scritti suoi. Ma, a me, sembra che la confluenza di questo motivo nel suo lavoro sia molto importante.

Chi conosce la storia sa che non abbondano le “cose gradevoli”, per quanto ci sia molta discrezione nella “storia divulgata”. O qualcuno trova piacevole la storia e le cronache che stiamo vivendo?

È più probabile si tratti dell’eterna controversia tra due mondi opposti, e della contraddizione intima di una cultura che è radicata su due modi di essere, di vivere, di “godere” socialmente dei prodotti del lavoro. C’è ancora chi inclina a considerare l’attuale come “il migliore dei mondi possibili”, e chi invece non può, semplicemente perché ne sostiene e subisce il “peggio”.

“Giangiacomo Mora e Guglielmo Piazza…, certi di morire innocenti, se non altro in quanto la giustizia li aveva costretti a mentire, non aveano neppure a sostenerli nel gran punto quella forza che è propria dei gran delinquenti, la forza, il cui abuso li trasse all’atrocità.

Posti essi sovra un alto carro, vennero tanagliati lungo tutta la via che è dal Capitano di Giustizia al Carrobbio: quivi si recisero loro le destre; poi, giunti alla Vedra, luogo dei supplizi, ebbero una ad una frante le ossa; ed intrecciati alla ruota stessa, poi innalzati, rimasero vivi sei ore, fra che spasimi neppure regge l’immaginazione a pensarlo! E le povere lor donne e i poveri figli loro? Infine, scannati e bruciati, ne furono gettate le ceneri nel vicino rivo”. Così un brano dei Ragionamenti del signor Cesare Cantù nel Processo agli untori.

Piero Leddi ha dedicato molto lavoro a queste vicende, studiando libri e immagini d’epoca – anche se qui compare un solo quadro intitolato al cerusico Giangiacomo Mora. Ma forse qualcosa di questi Ragionamenti si può rinvenire in altre “tavole”, come il San Sebastiano, o il Compianto per Serse.

Ciò che mi sembra da rilevare, nell’arco di questo lavoro, è il posto che vi occupa l’uomo.

[…] Mi dispiace fare spesso citazioni, ma ho troppo rispetto per alcuni uomini e per la cultura, perciò mi sembra giusto far dire a loro ciò che esprime meglio il mio pensiero: l’uomo che Leddi ci mette davanti somiglia a quello che Vittorini tentò poeticamente di disegnare, “ha addosso il dolore del mondo”.

Penso che la “sgradevolezza” di Leddi sia un merito non da poco nel suo operare.

(dalla Presentazione alla Galleria Solferino, Milano, 1973)

Davide Lajolo

Piero Leddi è senza dubbio una di quelle teste verdi piemontesi che fanno la lezione a te ma tu non la puoi fare mai a loro. Perché la sanno già e se la macerano tanto dentro da ritenerla sofferta, imparata e digerita per sempre.

Io l’ho conosciuto tanto tempo fa questo compaesano dei fratelli corridori Serse e Fausto Coppi e fin d’allora mi aveva impressionato la sua pittura, la sua cultura, la sua sicurezza nelle discussioni e il suo legame, soprattutto il suo legame di pelle e d’anima con la sua gente e la sua terra che genera erba e grano e meliga e tante altre cose a lato del fiume Curone presso Tortona.

[…] I suoi quadri sono il segno di un pittore che invece di andarsene verso il cosmopolitismo o le elissidi e gli arcani sogni onirici e no, scava sempre di più nella casa dei padri. E i padri sono pittori impastati come lui di terra, di piante, di inverno e di estati tortonesi, sono come lui odorosi di campagna, di sambuco, di trifoglio e tutti irti di rovi. Hanno il linguaggio della civiltà contadina, dell’arte dell’uomo e per l’uomo: sono Patri, sono Pellizza da Volpedo. Anzi, Leddi affonda le sue radici di pittore in una ricerca anche più lontana, va alle storie degli untori e ritrova il suppliziato Giangiacomo Mora e i torturatori.

La pittura di Leddi si carica di tempo, di tradizione, di rivolta, di contestazione modernissima. Le sue figure paiono scheletri e il bravo presentatore Franco Loi parla di malattia e sgradevolezza.

Ed io dico sì al concetto di Loi, no alla realtà dei quadri di Leddi. Che sono invece ricchi di un fascino sottile, penetrante. Che ti parlano di morte ma sono già la vita riemersa dalle torture e dalle cadute, siano i Mora o i Coppi, siano i contadini in alterco, o le teste o il pantografo sull’erba, sia persino il povero San Sebastiano.

Ma poiché Leddi è abituato a dire tutto, ecco che diventa anche scrittore e ti spiega i motivi dei quadri, ti illustra le sue figure come personaggi. E direi che scrive bene come dipinge. Perché scrive e dipinge solo l’essenziale. C’è da fare un discorso sui suoi colori, e sui suoi rossi che sanno di mura corrose e tenere, dove sta per crescere il verde dell’erba, quella sua ricerca scabra di linguaggio per lente parole e pause contadine. Quel suo dipingere anche il più piccolo spazio, persino la cornice. La malattia della perfezione perché Leddi i quadri non li fa ma li figlia. Sono sue creature come i suoi ragazzi e lui con i suoi quadri parla, dialoga e disputa.

(Giorni-Vie Nuove, 27 giugno 1973)

Gianfranco Bruno

La storia di Leddi si è mossa entro i due poli dell’origine e della condizione. È comprensibile come i due estremi siano dall’artista ricondotti a quel nodo di pulsioni esistenziali che costituiscono la vicenda originale della persona. Perché è qui, nei sussulti di una vita intrappolata nella tela fitta della società alienante, che si aprono barlumi sull’autenticità dell’essere. Leddi sa bene che questa autenticità non può rivelarsi nei temi della pittura, sebbene essi siano spesso la chiave per giungere al centro del problema. Da qui una sua foga tra automatismo e gesto che, senza allontanarsi da un’oggettività di forme e di figure, come un’immagine che di poco distaccando l’oggetto dal suo fuoco ne riveli una tremante vita sconosciuta, scopre nella sbilenca struttura delle forme la profonda fenditura tra il dato e il vissuto.

I temi del confronto tra l’origine e la condizione, siano essi l’amore in automobile, la famiglia, la discussione, sono vissuti dall’interno, come dramma di un autoriconoscimento attraverso i motivi dell’alienazione collettiva. Ecco perché il realismo di Leddi, se tale vogliamo definirlo, non è rivolto agli oggetti, alla cronaca e nemmeno alla storia, ma va inteso come un continuo rapportarsi della pittura a quella sostanziale convergenza di pulsioni esistenziali che costituiscono l’identità profonda della persona. Si comprende bene il più recente ricorso al mito storico, all’immagine simbolica: perché simbolo e mito rimandano ad una realtà collettiva non circoscritta, inclinano sulla realtà individuale e insieme collegano per oscure regioni l’individualità alla storia di tutti. C’è un dipinto del 1974, Sant’Anna con il vitello, di estremo interesse. Il tema freudiano della generazione vi è reinterpretato con l’introduzione del vitello, figura di congiunzione alla terra madre. E il moto delle figure trapassa dalla madre alla figlia al bambino, in un involversi di masse come visceri espressi dal profondo seno della terra. Così anche il ricorso a quell’estrema secchezza di segno che conferisce un castigato rigore all’immagine di Leddi, la suggestione d’antico che le sue opere recenti hanno, si spiegano con la necessità da parte dell’artista di restituire il distacco ineguagliabile dello stile ad una materia tanto incandescente perché vissuta sulla propria dibattuta identità.

(dalla Presentazione al Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 1975)

Luigi Carluccio

In Leddi, il disegno tende sempre ad essere formalmente elegante perché è un tratto che fa parte della sapienza prima ancora che dell’abilità dell’artista: la composizione chiude sempre in una griglia lucidamente architettata i guizzi e i lampeggiamenti della forma, perché è il segno di una visione pienamente dominata con i sensi e con lo spirito. Disegno e composizione realizzano in stretta simbiosi uno strumento raffinatissimo. Lo strumento adatto a comunicare nei modi più fascinosi (la fascinazione è un aspetto genuino dell’opera d’arte) la struggente e capziosa “profezia del presente” che ci pare costituisca il nodo di fondo della visione pittorica di Leddi.

(Panorama, 31 maggio 1977)

Anni Settanta

Il Carro di Milano e la Festa sul Ticino

Testi di Enzo Fabiani. Giorgio Seveso, Elvira Cassa Salvi

Enzo Fabiani

Circa venti anni di ricerche, di passioni, di scoramenti e furori hanno via via maturato Piero Leddi, facendo di lui un uomo e un artista destinato a trovare la sua propria voce, il suo proprio accento mediante una sorta di lento martirio che per diventare tale, ossia testimonianza esatta e non turbata, esige una rara forza spirituale e intellettuale, ed a volte del vero e proprio eroismo non soltanto poetico. È il risultato di una ricerca che ha portato Leddi a procedere per cicli pittorici. […]

Avventura poetica che ha qualcosa di terragno e medioevale; che è legata ad avvenimenti naturali e domestici (il temporale, il mugliar della vacca, il morso della vipera); che procede con rabbia e fatica come una linfa viva dentro un albero morso da un gelo crudele; che riconosce i fiori e le piante, e gli insetti ad essi nemici: ma che tuttavia ha precisa coscienza che ogni avvenimento anche naturale ha senso soltanto se è in funzione dell’uomo.

[…] Siamo così in un mondo compatto e violento, ma anche psicologicamente disposto alla contemplazione da una parte e all’esaltazione dall’altra.

Contemplazione dei fenomeni naturali (si pensi a certe descrizioni di Paolo Diacono), dei volti, delle immagini familiari. Esaltazione degli “eroi” della zona, del paese: che si fa compianto quando finiscono tragicamente (ed ecco i compianti per Serse Coppi), pur restando sempre dei simboli per il coraggio che hanno avuto di andarsene, di lasciare il fango, la miseria.

Ora questi accenni non pretendono affatto di fare la storia dell’attività di Leddi, che è già assai lunga; ma di cercar di capire almeno qualcuno dei motivi del suo singolare e tragico mondo; di cercar di capirne la sostanza intellettuale e umana, che è sì forte e autentica da angustiarlo, quasi umiliarlo, scoraggiarlo; di cercar di capire come questo gran lombardo, nel cui sangue c’è probabilmente qualcosa dell’antico ligure (ed ecco che qui s’accendono nuovi bagliori, perché io credo fermamente all’importanza degli antenati), possa via via chiarire a se stesso quella che è e deve essere la sua testimonianza. […]

E qui vorrei poter citare per intero le pagine sorprendenti che Leddi ha scritto sulla nascita di questi quadri (e che lo confermano scrittore davvero singolare), dove tra l’altro si legge: “Rappresentare il paesaggio milanese degli edifici pubblici, Architettura bianca e rossa: marmo e mattoni. Triennale, Angelicum. Arengario, Piazza degli Affari. Un carro da buoi – come attrezzo architettura – con molti dettagli. Carro di trionfo o carro di supplizio. In quello di Mora, il braciere che fuma, le tenaglie; pentirsi e pregare; buoni ladroni c’è sempre Gesù – e la parte antipatica la fa l’amministrazione… […]

Ho visto questo carro, poi l’ho pensato per me, mio padre e i miei fratelli, come se fossimo venuti a Milano con il nostro carro da buoi; poi, per dei fatti imponderabili, tutto si è stravolto; difatti nei sentimenti abbiamo cominciato a distruggerci”.

È un poema tragico e solenne, narrato con un amore e una partecipazione che non hanno mai impedito un’oggettivazione esatta, approfondita. Più curioso, in certo senso, l’altro quadro della grande vacca, ove la lezione seicentesca sembra frammentarsi nei particolari (la coda, le unghie) e in un che di stregato che potrebbe piacere a un surrealista. Ma in ogni caso sono quadri (e anche i particolari, gli studi) che non possono non convincere, anche per come l’intelligenza pittorica riesce ad equilibrare passato e presente, a far rivivere con moderno significato il fatto antico o agreste; per come coraggiosamente questi soggetti vengono riproposti, al di là di ogni intento rappresentativo o illustrativo.

(dalla Presentazione alla Galleria d’arte Radice, Lissone, 1974)

Giorgio Seveso

Il tema che Piero presenta è quello dell’angoscia di fronte ad un mondo che non ha più la nostra misura, che non ha più la nostra forma: è una angoscia da sempre al centro della sua pittura, da quando, nel dopoguerra degli anni cinquanta, Leddi giunse a Milano intrecciando le proprie radici contadine alle agitate e incalzanti circostanze culturali d’allora.

Le sue immagini sono a quel tempo dissolte, risentite, urtate dalla brutalità di un consolidamento urbano e borghese che nega o rovescia ogni valore autenticamente umano, che confonde ogni solidarietà possibile tra l’uomo e il suo mondo quotidiano. In una sorta di visione esistenziale (o esistenzialistica) del gesto pittorico disgregatore l’immagine è ri-pensata soltanto nella sfera del probabile, assediata com’è da atmosfere angoscianti, appunto, e inibitorie d’ogni messaggio più diretto, più esplicito.

Sono tracce addensate, sintesi fulminee, grumi d’emozioni ad alto timbro che lentamente poi, con il passare degli anni e delle stagioni, vengono organizzandosi, vengono impastandosi e distendendosi in schemi più meditati e più colti, più aderenti alle convenzionalità in divenire delle grandi lezioni figurative che Leddi riscopre. Dürer, il manierismo lombardo, il grande barocco diventano allora, per lui, un modo inedito e straordinario per ricollegarsi da un lato all’epicità greve e nebbiosa della sua campagna e della vita contadina e, dall’altro, per leggere diversamente ed assimilare capifila come Boccioni, come Giacometti, come Bacon.

L’angoscia è dovunque intorno a noi, nelle spianate di morti delle non-guerre ai quattro angoli del mondo così come nella violenza stritolante delle megacittà di cemento, nell’odio rutilante che separa l’uomo dall’uomo così come nella nube velenosa che, un certo mattino, si alza in Lombardia a segnare per sempre, come un simbolo, l’estrema malattia della nostra cultura. E se l’angoscia, nelle opere e nei cicli precedenti, si specchiava viso a viso con il fantasma della peste, con gli afrori delle fumigazioni e dei roghi, nelle urla arrocchite dei milanesi e dei preti intorno alla Colonna Infame, oggi, nelle immagini della Festa del Ticino, Leddi l’ha collocata in una allegoria ben più vicina, che dà corpo e sostanza ad un allarme irrimediabile, ad una inquietudine fatta di mostruose certezze. […]

In questo lavoro Leddi ha operato all’interno di una maturità e di una unità stilistiche quanto mai solide, rare, convincenti. C’è qui, forse, il momento più alto e risolto a tutt’oggi della sua pittura, che vi è giunta ad una confluenza estrema e febbrilmente perfetta tra forma e significato, tra pluralità scrosciante di temi, di spunti di intrecci molteplici e rigore fermissimo e convinto.

Il paesaggio è policentrico, spezzato da punti di fuga contrastanti, inquieti, agitati da ambigue lontananze. Gli animali muoiono, uccisi dal veleno tra gli oggetti abbandonati dagli abitanti. C’è un’aria di fuga, d’esodo precipitoso: un clima (che è clima mentale, proiezione di poesia), di dissoluzione, di tremante precarietà.

Sulla spianata i personaggi, infatti, sono fantasmi di cenere, ombre incarnate di esauste illusioni mentre lontane bandiere segnalano un’ultima, impossibile festa. Le madri non hanno più volto, né respiro, né gesti di vita: solo le mani aperte ad un’inutile disperata difesa dei figli.

Alle immagini della tragedia si aggiungono quelle del sogno e del simbolo, le autobiografie, le memorie, gli infranti tasselli della coscienza. Un fanciullo tenta ancora l’improbabile volo di un aquilone; qualcuno suona, medita, lavora, gioca. […] Dunque un intreccio complesso, folto di allusioni, di emblemi indefiniti, di iperboli figurali. Un intreccio in cui confluisce una fervida volontà d’approfondimenti poetici e strutturali ed in cui Piero coglie e suggerisce frammenti abbaglianti di verità sotterranee e universali, rivelando lentamente lo spalancato abisso di fragilità e d’allarme che si cela sotto la pelle d’ogni nostra certezza. Un intreccio, insomma, in cui la vicenda contemporanea dell’uomo è indagata in totale compromissione di sentimenti e di giudizio; in cui non c’è distanza (se non di vera, alta poesia) tra pittura e vita.

(dalla Presentazione alla Galleria Spazio Immagine, Milano, 1979)

Elvira Cassa Salvi

La personale allestita in questi giorni […] ci pone in presenza di uno dei pittori più intensi e autentici su cui possa contare oggi – e non solo in Italia – il bisogno umano di conoscersi, di confrontarsi, di comunicare. Quella sua misuratissima tendenza a tradurre l’ossatura del fisico animale in strutture che vivono di un complesso, intricatissimo rapporto d’analogia e di contrasto al tempo stesso con le strutture meccaniche, ha trovato una soluzione di rara intensità e chiarezza formale.

Questa ossatura – in senso letterale, perché gli occhi di Leddi scrutano il mondo con la penetrante aggressività di un apparecchio radiologico – questa ossatura, dicevamo, affiora con le sue aggressive tensioni da un tessuto cromatico complesso e contraddetto, che assimila Leddi nella diffusa temperie del drammatico, autentico, disarmato manierismo di questi anni; una declinazione più riflessiva, più coinvolta della sensibilità e dell’angoscia espressionistica, che, come fiume incandescente è sceso fino a noi attraverso le selve, le rocce, i deserti del secolo. […]

E nel colore si son depositati e si depositano gli umori distillati in una esperienza di vita astratta e prigioniera, lusingata e ferita dalla città, dal luogo che ti toglie dalla solitudine agreste e ti restituisce alla più struggente e assurda solitudine urbana; ti toglie dall’angoscia di una povertà originaria e ti restituisce alla povertà riprodotta dalla gara dei consumi cittadini; ti sottrae alla violenza di un mondo primitivo e ti sottopone alla insostenibile prova di una miriade di raffinatissime violenze, dissimulate e disseminate lungo la catena delle ore, dei giorni.

Ma non si pensi ormai ad un rapporto forma-colore tuttora difficile e segnato da motivi di ostilità e di eterogeneità. Il lessico espressivo di Leddi asseconda il gioco tonale, proprio come la calligrafia dei manieristi cinquecenteschi ubbidisce al loro estro cromatico. Il disegno s’è sciolto dai nodi d’una realtà scarnita, per non dire scarnificata, e senza perdere l’incisività, il nerbo plastico ch’era suo, s’è arreso alla lusinga del colore e dei suoi veleni. Un disegno avvelenato, esasperato, teso nelle movenze di una musicalità tenerissima e straziante, traccia un ordito e una trama pieni di malizie e di provocazioni subito raccolte dal colore.

L’opera centrale della mostra s’intitola Festa sul Ticino. Il pensiero corre a cose diversissime, nelle quali forse i rispettivi autori vollero dire, in lingua loro, cose non troppo diverse da quelle affrontate da Leddi. Si pensa alla Spiaggia di Guttuso; che a suo tempo e a sua volta aveva fatto pensare alla Grande Jatte di Seurat. Pittura davvero molto diversa; e tuttavia pittura comunque manieristica, visto che ogni tempo ha il suo manierismo; e le cose dette certo sono diverse, ma stanno comunque con il loro tempo in un rapporto analogo.

(Giornale di Brescia, 29 ottobre 1980)

Anni Ottanta e Novanta

La Rivoluzione francese

Testi di Piero Leddi, Anna Finocchi, Mario De Micheli, Michel Vovelle, Raffaele De Grada

Piero Leddi

La ricerca è cominciata nel 1985. Nel 1987 ho esposto il quadro Il giuramento della pallacorda alla Biennale nazionale d’arte Città di Milano, vincendo il 1° premio.

L’anno successivo ho tenuto una mostra nella sede della Banca Popolare di Milano a Roma, con presentazione di Anna Finocchi […]. Sempre nel 1988 ho presentato alla Shop Art di Milano una cartella di incisioni, Donne della Rivoluzione francese.

Il lavoro intorno a questi temi si è concluso con una personale al Castello Sforzesco, Omaggio alla Rivoluzione francese, promossa dal Comune di Milano per il bicentenario dell’89.

All’inizio era stato solo un innamoramento per l’architettura neoclassica, il periodo storico.

Ho visitato il museo Carnavalet di Parigi, studiato i quadri di David, Fuseli, Giani, i progetti architettonici di Boullée e Ledoux, ma anche i luoghi, le architetture milanesi e lombarde della Cisalpina, la letteratura illuministica, le stampe del Foro Bonaparte dell’Antolini, il progetto del Cagnola, l’Arena del Canonica. Ma soprattutto l’incanto dell’Encyclopédie: le luci argentate che entrano dalle finestre dei laboratori, la forma degli utensili per tutte le lavorazioni, la gioiosità dei nastrini, e ancora le stoffe, i Tableaux Historiques de la Révolution Française, il fascino dei protagonisti, la narrazione di Michelet.

La durata nel tempo è dovuta all’interesse per molte tematiche: personaggi, oggetti, paesaggio, architetture, animali, racconti, apparati celebrativi, costumi – come per fare un film […].

Nel 1989 la mostra è stata successivamente presentata, insieme alle opere di altri artisti sullo stesso argomento, al Palazzo del Parlamento europeo di Strasburgo e nel 1990 come personale all’Istituto culturale italiano di Lione. Nello stesso anno ho esposto una scelta di quadri sul Giacobinismo italiano anche al Teatro civico di Tortona (con presentazione di Franco Della Peruta).

Il giuramento della pallacorda. 20 giugno 1789. Vento e pioggia nello stanzone per il “jeu de paume” dei cortigiani, finestre alte con sventolio di tende. Soffitto-cielo, nuvole trascorrenti.

Grande paura e germinazione. Il grande cadavere e la paura, il trionfo di Voltaire, il luogo doveva essere il simbolo del territorio francese. Nascosto in esso un grande corpo in germinazione, grande madre che concima la terra.

Nell’ombra paura non ancora dissolta.

Festa dell’Essere Supremo. Robespierre appicca il fuoco alle statue combustibili preparate da David: l’Ateismo, l’Egoismo, il Nulla, il Delitto, il Vizio. Sotto queste appaiono altre statue: ne esce affumicata la Saggezza.

L’albero della libertà. Sarà antropomorfico, l’uomo lo vestirà e svestirà. Potato, innestato, spostato dal suo luogo originale, snaturato, schizofrenico. Contagiato dalle malattie umane. Alienato dalla produzione e dallo sfruttamento.

(da Piero Leddi. Dipinti e disegni, Charta, Milano, 1994)

Anna Finocchi

Leddi non tratta la storia dell’arte come un repertorio di soggetti riciclabili a seconda delle occasioni: la scadenza del bicentenario della Rivoluzione francese non gli ha fornito, appunto, un’“occasione da non perdere”. Su questi temi Leddi sta lavorando già da alcuni anni: un’indagine approfondita e lucidissima sulle fonti storiche, in particolare su quelle visive, e che si traduce nei termini di un’originalissima sintesi pittorica. Non bisogna quindi limitarsi a individuare gli spunti dai grandi quadri di David e dalla ricca iconografia rivoluzionaria – che pure sono nell’opera di Leddi spunti per nulla casuali di un preciso confronto – ma bisogna verificare la coerente prosecuzione di un’indagine che Leddi conduce ormai da decenni sul corpo umano e sullo spazio dell’architettura e della natura, oltre che su alcuni momenti e protagonisti della storia dell’arte. Indagine che si condensa in soluzioni pittoriche di grande sapienza scenografica, in cui i calcolati effetti prospettici e i sottili schemi geometrici si combinano con l’originalità e la concisa forza delle soluzioni chiaroscurali e cromatiche.

Al rigore e alla coerenza della ricerca pittorica si unisce la lucidità dell’adesione alla storia. Lucidità che significa non calcolata freddezza, ma autentica consapevolezza, che può anche permettersi dell’ironia oppure la forza della passione, senza mai cedere ai compiacimenti nostalgici o all’enfasi retorica. La profonda sintonia con la storia è una costante nel lavoro di Leddi che sostanzia il suo misurarsi in un serrato dialogo con alcuni momenti del passato.

“Non mi preoccupo delle citazioni. Mi piace studiare” – ha dichiarato in un’intervista di qualche anno fa. Dello studio però non conosce l’aridità della classificazione e il distacco della lontananza, ma lo affronta solo con l’entusiasmo e la curiosità della consonanza, alla ricerca dei nodi che possono legare il passato al presente. Leddi ha riconosciuto uno di questi nodi nelle utopie rivoluzionarie e neoclassiche e ne ha già dato un’interpretazione nelle grandi tele dell’Arco della Pace e del Parco Sempione del 1985. L’enorme lavoro su queste tematiche che Leddi va conducendo negli ultimi anni conferma le sue qualità di pittore di storia, nel senso più alto della definizione.

Per tutto questo – mai semplice illustrazione, mai occasionale recupero o saccheggio di immagini del passato, mai disimpegnata rinuncia a fronteggiare la realtà e il presente (“Mi rivolgo al tempo presente, nella nube dell’incertezza”) – per tutto lo spessore della sua colta e appassionata ricerca, l’opera di Leddi trova posto in un testo di storia come L’eredità della Rivoluzione francese pubblicato da Laterza, nel quale gioca il ruolo non dell’ornamento, piacevole e sovrapposto, ma di una autonoma, particolare, problematica interpretazione.

(dalla Presentazione alla Banca Popolare di Milano, Roma, 1988)

Mario De Micheli

Sono ormai più di quattro anni che Piero Leddi è immerso nei temi e nelle immagini della Rivoluzione francese. Per lui sono stati anni di studio, d’indagine, di ricerca. Andare a trovarlo nel suo atelier è un’avventura sorprendente, è come percorrere un intricato labirinto folto di seducenti richiami. L’itinerario è irregolare, si svolge su due piani per scalette e stretti passaggi, in stanze dove s’incontrano grandi tele popolate di personaggi in azione, di volti ispirati, di presenze drammatiche. Ma tra i quadri in luce o addossati alle pareti, tra i divani, le seggiole ingombre e i simboli dell’Ottantanove appesi ai muri, ecco anche i dizionari, i vecchi e preziosi volumi […]. E naturalmente i testi classici, da Michelet a Mathiez sino ai più recenti, da Furet a Vovelle. Ma ecco in vista anche […] un disegno neoclassico di Felice Giani. Leddi dice: “Giani era del mio paese, San Sebastiano Curone”. E si capisce che di questa comune origine è soddisfatto […].

Certo il bicentenario è una grande occasione per esporre questo ciclo straordinario di opere che Leddi ha condotto a termine con tanto assiduo lavoro, ma quando ha cominciato a mettervi mano non pensava in nessun modo a una crescita così fitta di opere, di studi, di disegni e bozzetti. Il tema è lievitato, si è articolato, s’è fatto imponente per la molteplicità di argomenti e di interrogativi che via via trascinava con sé e a cui non era possibile sfuggire. Ma soprattutto, lavorandovi, Leddi è andato scoprendo come ogni motivo, ogni problema di quel lontano passato adombrava o poteva adombrare le difficoltà del presente, le ragioni e gli ideali più alti del tempo in cui siamo posti a vivere e operare. E questo, a mio avviso, è il vero motivo per cui egli, una volta iniziato a dipingere o a disegnare una o due opere sulla Rivoluzione, ha avuto l’impressione di scavare in un filone inesauribile e ne ha quindi seguito la vena sino a oggi, in una sorta di sgomento e di entusiasmo […].

Le opere [di Leddi] sono innanzitutto il frutto non improvvisato di una lunga riflessione e di un lungo amore, nutriti di letture accanite, di repertori iconografici, di perlustrazioni nel dominio dell’aneddotica. L’interesse politico e intellettuale, nella sua fatica di “produttore di immagini”, si è unito allo scrupolo culturale e all’esigenza di una conoscenza non generica. E tuttavia non sono ancora queste le qualità che caratterizzano le sue opere, anche se di tali qualità v’è chiara l’impronta. Ciò che dà fisionomia e vibrante accento alle sue immagini è soprattutto l’urgenza formale che ne determina il segno, il piglio, l’impulso grafico. C’è sempre un fremito poetico nei gesti dei personaggi che appaiono sulle sue tele e c’è sempre un respiro plastico vivificante nelle scene dove tali gesti si compiono. Ma l’interrogativo è questo: donde gli viene la suggestione esatta dei luoghi, degli ambienti, delle architetture, delle sequenze che costituiscono la trama e l’ordito dei suoi racconti figurativi? Donde gli vengono i dettagli della verità, dico anche della verità oggettiva, di cui la sua stessa immaginazione non può fare a meno inseguendo la definizione delle proprie rappresentazioni?

(da Piero Leddi. Omaggio alla Rivoluzione francese, Electa, Milano, 1989)

Michel Vovelle

Nel suo appassionato interrogare la Rivoluzione francese, era inevitabile che Piero Leddi si imbattesse nella festa. Il tema non gli è estraneo, egli lo ha già affrontato più di dieci anni fa (Ballo all’Arena, 1976; Festa sul Ticino, 1976-1978); feste inquietanti nello scenario dell’arena che ritroveremo.

Nella serie di interrogativi posti alla Rivoluzione, la festa ha un ruolo particolare, oggetto di schizzi continuamente rimaneggiati, di domande continuamente riformulate. Non si tratta in questo caso di cercare un uomo – Marat o Robespierre – individuandone i tratti o mettendolo in situazione, né tanto meno di evocare un istante, fosse anche quello del Giuramento della Pallacorda: è il significato stesso dell’avvenimento che bisogna cogliere a partire da uno dei suoi momenti più misteriosi – momento in cui l’eroe rivoluzionario affronta il giudizio di colui del quale proclama l’esistenza e si presenta nella vivida luce di quel sole al centro del quale brilla l’occhio giudicante.

Per rappresentarlo, Piero Leddi ha scelto tre sequenze, tra le scene che la giornata del 20 pratile dell’anno II gli offriva, senza rinchiudersi nella cronaca per immagini che l’iconografia contemporanea gli suggeriva. […] Egli ha individuato tre sequenze capitali: una, centrale, intorno alla montagna elevata nel mezzo del Champ de Mars, dove è sfociato il corteo della Convenzione e del popolo parigino, un’altra a partire da quel carro dell’agricoltura sovraccarico di ornamenti e di simboli, che fu uno degli elementi più in vista del corteo dalla partenza all’Hôtel de Ville. Un terzo tema, infine, meno direttamente legato all’avvenimento del giorno, si articola intorno all’albero della libertà – certo uno dei motivi della scena, poiché si ritrova sia in cima alla montagna che sul carro dell’agricoltura – ma anche simbolo festivo, degno di essere trattato per se stesso, ai piedi del quale si dispiega la danza della libertà.

Questa triplice scelta è già in sé significativa: essa fissa ciò che l’immaginario di un artista contemporaneo – che peraltro conosce perfettamente le espressioni iconografiche del tempo – ha colto, o meglio ancora selezionato, di un momento, del quale si sa quanto abbia “affascinato” gli storici della Rivoluzione, a cominciare da Michelet.

[…]

È inevitabile anche paragonare la composizione di Piero Leddi a una delle feste romane più imponenti del 1798, la festa della Federazione sulla piazza San Pietro, quale un dipinto di Giani la rappresenta. Stesso dispositivo scenico di quattro colonne monumentali sormontate da statue, intorno all’altare della patria cui si accede per gradi. Una differenza fondamentale tuttavia: il dipinto di Giani, grazie a una tecnica di ripresa dal basso, valorizza il movimento ascensionale dei gruppi e dei cortei che salgono verso gli accessi all’altare, in una prospettiva aperta.

È l’effetto contrario che Piero Leddi ha cercato in questa composizione, in cui la ripresa dall’alto pone quasi un abisso tra i personaggi in primo piano e l’oggetto, vicino e lontano, della loro contemplazione, facendo di Robespierre una sorta di Mosè, che possiamo figurarci mentre contempla la terra promessa, o il roveto ardente dell’immagine divina.

Ci interroghiamo su questi personaggi: è poco dire che l’artista non ha cercato un effetto di folla. Certi schizzi sono quasi spopolati, o presentano in primo piano solo pochi spettatori inattivi, visti di spalle, generalmente nudi, se si eccettua qualche dettaglio dell’abbigliamento. Un ammiccamento allo stile neoclassico del David del Giuramento della Pallacorda, si direbbe, se non vi si ritrovassero le figure care al pittore e il contrappunto, che egli predilige, tra la fluidità della forma umana e le costruzioni affilate delle sue architetture. Leddi ha dunque popolato il suo quadro, ma molto discretamente, almeno per ciò che riguarda la scena centrale, nella quale qualche gruppo sparso si dispone a diversi livelli, senza alterare l’impressione voluta di una scena vuota, inondata di sole.

Si direbbe che sia l’istante che precede la festa – l’arrivo dei gruppi. Ma forse essa non avrà luogo, forse si riduce a questa contemplazione a distanza, in un abbandono noncurante per alcuni, più convinto per altri… Poi, di disegno in disegno, si impone la presenza di Robespierre, che darà a questa scena, più che il tocco finale, il suo significato. […]

È un’altra immagine forte – quella del carro dell’agricoltura – che Piero Leddi ha individuato per proseguire nei suoi interrogativi […].

Dalla festa dell’Essere Supremo dell’anno II fino alle feste dell’agricoltura che il periodo del Direttorio integrerà nel ciclo delle celebrazioni annuali, tale riferimento è costante […].

In che cosa Piero Leddi vi si può ritrovare? Innanzitutto si potrebbe osservare che egli ha da parte sua un legame molto vivo con le cose dei campi. Ama gli alberi, ama gli oggetti, gli utensili tradizionali, massicci, semplici e complicati come può essere lo stesso carro dell’agricoltura, poi ama le bestie – caprini o bovini, coi quali ha avuto dagli inizi della sua produzione un rapporto fisico complesso di familiarità e di aggressività insieme. Si sarebbe tentati di dire che la rappresentazione che ci dà del carro dell’agricoltura sia stata concepita a partire dal gruppo iniziale di questi buoi possenti, massicci nel loro movimento lento, immagini di una forza ostinata e selvaggia, in armonia con la forza del carro che trascinano. Il gruppo dei buoi – quasi bufali dalle larghe corna e dal collo potente – si impone, si direbbe progressivamente, a Piero Leddi dai primi disegni fino all’opera compiuta. Ricorda tutta un’eredità, quella dei pittori veristi della fine del secolo scorso, cantori di un mondo rurale e delle sue forze nascoste. Tale presenza della natura è come accentuata dal gioco delle ombre e della luce in una scena, dapprima concepita come tenebrosa, poi inondata dal sole abbagliante di un pomeriggio d’estate. Calpestio evocato dal pesante giogo in movimento, raddoppiato dalle ombre proiettate sul terreno. […]

Del carro dell’agricoltura Piero Leddi ha fatto a suo modo un trionfo, se non del popolo francese, almeno della Rivoluzione. Nella sua composizione piramidale, la natura resta onnipresente, non solamente attraverso la forza animale del carro, ma attraverso il simbolo d’una gigantesca spiga di grano e di un albero che corona l’edificio in movimento, selvaggio e arruffato anch’esso, espressione della natura in libertà in contrapposizione alla natura asservita, sormontato da una coccarda che si inscrive nel triangolo della divinità. Nella costruzione in altezza si potrebbe vedere il simbolo stesso del lavoro della Rivoluzione, dalla base larga e forte – la forza delle cose, forse? – fino allo slancio alla conquista del cielo dei rami dell’albero della libertà. Ma tra questi due livelli si situa l’azione degli uomini e delle immagini che li rappresentano, attraverso i diversi volti della Rivoluzione. […]

Tale è, tra ombre e luci, la Rivoluzione che avanza al passo lento dei buoi, immagine insieme di fatalità e di libertà, sotto lo sguardo dell’Essere Supremo.

Questo duplice aspetto non è quello che si ritrova negli studi e nelle variazioni che Piero Leddi ci propone intorno al simbolo per eccellenza dell’albero della libertà? Alla stregua dei rivoluzionari, egli lo colloca al centro delle sue grandi composizioni dedicate all’Essere Supremo: gli dà vita per se stesso, associandolo ai diversi oggetti simbolici del periodo. Così facendo riprende, forse senza saperlo, una delle tradizioni che sono all’origine dell’albero della libertà. Lungi dall’essere il simbolo rassicurante delle riconciliazioni fraterne, il luogo di una gioia spensierata, i primi alberi eretti a partire dal 1790 nel sud-est della Francia – nel Quercy, nel Perigord o nel Limousin – furono dei “mais” di lotta rivendicativa […].

Mi pare di aver riconosciuto negli schizzi nervosi di Piero Leddi simili “alberi di maggio”, simboli di conquista dalla forza prorompente. Alberi vivi o alberi senza radici: la stessa epoca rivoluzionaria ha dovuto fare la scelta, piantando in qualche occasione su un basamento tali emblemi dimostrativi.[…]

La Rivoluzione di Piero Leddi è cosa seria. Essa ha per molti aspetti una dimensione tragica: nella solitudine dell’eroe rivoluzionario, nella presenza della violenza proprio al centro di ciò che dovrebbe essere gioia, nello stesso cammino in cui la libertà si apre un varco al passo lento e incerto dei grandi buoi, simbolo cieco della forza delle cose. E tuttavia la Rivoluzione non si riduce alla disperazione, ancor meno all’apocalisse. Essa è conquista, accesso a un ordine superiore, è luce che penetra l’ombra, emanazione di quell’Essere Supremo, che forse non è che la suprema espressione della volontà umana.

(da Piero Leddi. Omaggio alla Rivoluzione francese, Electa, Milano, 1989)

Raffaele De Grada

Nel 1989 alcune manifestazioni ricordarono il secondo centenario della Rivoluzione francese, che tanti effetti produsse sulla nostra Lombardia, specialmente a Milano dove notevoli fermenti culturali avevano contribuito a prepararla. Ma le manifestazioni non toccarono le arti figurative se non per una mostra, lungamente preparata sul tema, di un pittore che poi espose i risultati del suo lavoro. Questo pittore, che ha operato in questi anni in una sorta di isolamento, tutto dedito alle ragioni dell’arte, è Piero Leddi, un ex giovane che è sbarcato a Milano da un paese isolato del Tortonese, S. Sebastiano sul fiume Curone, noto soltanto per essere finitimo con quel Volpedo che dette i natali al grande Giuseppe Pellizza.

E proprio al culto di Pellizza devo la mia amicizia con Leddi. Fu lui che mi accompagnò nel primo dopoguerra a visitare lo studio del Maestro piemontese, un vero sacrario, custodito dagli ultimi suoi familiari.

Piero Leddi era di casa e respirava 1’aria di quel grande infelice che, com’è noto, finì tragicamente ancora in età relativamente giovane. Da Pellizza Leddi ha ereditato il massimo insegnamento, quello dell’arte impegnata a testimoniare un tempo, con le sue idee, i suoi propositi, le sue speranze. De Micheli ha ricordato che in quegli stessi paesi visse anche il neoclassico Felice Giani, che forse ha ispirato a Leddi il gusto della grande composizione, così insueta ai nostri tempi. Fatto sta che Leddi ha ricercato con grande tenacia e molte qualità il difficile incontro tra il nucleo poetico insito nella propria personalità e una tematica di largo impegno culturale com’è quella che si rivela nelle opere qui esposte.

L’originaria natura contadina portava Leddi alla considerazione pragmatica delle cose, sul terreno poetico dell’espressione della propria intimità, ma nello stesso tempo davanti a lui si paravano gli scenari fascinosi di magiche contemplazioni di fastigi e misfatti, il perturbante dissidio della storia degli uomini. Ecco che le sue mucche, gli uccelli, gli alberi e la stessa umanità assumono l’aspetto orrendo delle figure mostruose, evocate dal visionario infernale.

Saranno forse le eco dell’infanzia vissuta, pur da lontano, nella tragedia della guerra, che accendono il visionario di Leddi. È certo che le sue forme scabre, che sezionano con un disegno acuto, tormentato le scene suggerite dalla sua fantasia, che farnetica anche sui fatti della cronaca a lui vicina (l’epopea del conterraneo corridore Coppi come gli uccelli uccisi dai cacciatori della sua valle) fanno già presentire negli anni settanta le opere che qui vediamo, dedicate al più drammatico episodio della storia moderna, la Rivoluzione francese, interpretata da Leddi come una vittoria, piena di contraddizioni, della civiltà nuova, industriale e moderna, contro la civiltà contadina, arcaica e feudale, che pur gli stava nelle vene.

Non credo che sia un forzare l’interpretazione di queste opere di Leddi ispirate dai fatti e dai personaggi della Rivoluzione francese affermare che in esse si manifesta una contraddizione tra la nostalgia di una civiltà antica e gli stimoli acuti del moderno. Disegnatore penetrante, rigoroso, Leddi non si lascia trascinare dagli entusiasmi pellizziani del Quarto Stato dove il corteo degli operai contadini è circonfuso da un’aureola fatata di avvenire. Le immagini di Leddi cavalcano la metafora delle guerre e delle feste con un messaggio improrogabile dell’evento storico; i cavalli dell’Apocalisse dell’armata del Cardinale Ruffo come le colonne libertarie delle feste della Repubblica romana, i simulacri della Dea Ragione come gli episodi del Terrore incutono insieme il senso di avvenimenti giusti, ma sofferti, non voluti né goduti. Un fantasma aleggia su queste immagini di Leddi, quello del grande Goya per cui la rivoluzione suscita la guerra e la guerra incombe con le sue figure bestiali, evocate dagli abissi infernali. […]

Si avverte che l’immaginario di Leddi è ispirato dai nobili esempi del neoclassicismo (il ricordo di Felice Giani non è inutile), ma nello stesso tempo è tormentato da quel bagliore espressionista che percorre come una folgore tutta la sua opera. Le aquile, i tridenti, i nuovi scettri sono nelle mani dei nuovi mostri del giusto e del razionale, pronti a colpire e a distruggere per rinnovare.

L’opera di Leddi non è dunque neppure sfiorata dalla retorica dell’illustrativo e del racconto, anche se dedita a raccontare gli episodi significativi della Storia. La Rivoluzione e le sue conseguenze sono viste in controluce con un linguaggio articolato e drammatico dove il segno esprime l’implacabile memoria del tempo […].

Le immagini di Leddi inclinano a farci cogliere più il dramma dei torturati che le esaltazioni delle masse in una visione quanto mai tragica degli eventi rivoluzionari, raccontati più attraverso il patimento delle vittime che la celebrazione dei fasti. Gli stessi stecchiti “alberi della Libertà” sembrano offerti come cespugli secchi alla futura rabbia della reazione che li brucerà drammaticamente.

[…] Si ricorda che David voleva raccogliere tutte le opere (noi le chiameremmo installazioni) che erano state prodotte dalla spontaneità popolare durante i brevi anni della grande Rivoluzione. È come se oggi Leddi le volesse rivedere con gli occhi delle sofferenze, anche gloriose, di due secoli. […] Gli accostiamo mentalmente altri esempi del repertorio di Leddi, le sue visionarie immagini delle stazioni, degli archi cittadini, dei tram, dei metrò, delle città sconquassate e purulente.

Altri artisti del nostro tempo ci hanno abituato a queste visioni (i disegni di guerra di Moore, di Sutherland per esempio), frutto di rivelazioni umanissime del costo che gli eventi liberatori portano alle civiltà in progresso.

È un modo significativo, partecipe, del realismo nuovo degli artisti impegnati. Leddi è un uomo di punta di questa tendenza ormai rara che raccoglie il peso di una civiltà in progresso, dei suoi fasti e nefasti. Non c’è il pianto sulle “magnifiche sorti e progressive” ma neppure la retorica immagine che il tempo costruisce e distrugge, nella sua inevitabilità. Si manifesta invece una razionale adesione, coi panni dell’oggi, a un grande evento storico più vissuto nell’anima che raccontato nella pratica, più raccolto nel segreto della coscienza che celebrato sulle piazze. E le forme non potevano essere che le sue, quelle di un realismo espressionista lacerato e contorto nel chiaroscuro della Ragione che non è più una dea ma rimane come problema dell’umanità di oggi.

(da Piero Leddi. Giacobinismo italiano 1789-1796, Sala della Resistenza, Comune di Verbania, 1996)

Anni Ottanta e Novanta

Milano

Testi di Giancarlo Majorino, Eleonora Bairati, Franco Loi, Mario De Micheli

Giancarlo Majorino

Il sogno della ragione domina la pittura di Leddi. E, come nel prediletto Settecento, l’idea di una natura sostanzialmente positiva, benché celata, idealizzabile ancora con profitto nei suoi mille attributi. Ecco allora le prospettive, le figure umane, i paesaggi, gli utensili, in una pace immaginaria o in una guerra quotidiana nell’esaltazione fantastica e nell’aderenza realistica. Un laboratorio ampio e insolito che conosce, attraversa ma nega le negazioni della pittura contemporanea. Il veicolo che consente tale spostamento è dato dal racconto, dalle figurazioni, dalle rappresentazioni ideali, pratiche, allegoriche, simboliche, caricaturali, che gremiscono e conducono le scene, affidate in primo luogo alla forza saettante di un disegno inventivo, flessibile, ricco di umori e di vitalità. Che la natura sia stata degradata, si riduca e si concentri nel suo nuovo stato di natura lavorata od ex natura è ben presente, ma la fertilità di quell’idea-guida fa sì che le stesse persone e i loro oggetti facendone parte la ricostituiscano nella profondità vasta del termine, riarmonizzandoci ad essa. Accade dunque che progetti si aprano e si svolgano fondandosi su diversi temi figurativi; quattro, essenzialmente: il corpo, le comparazioni anatomiche, l’idealità e la deformazione nel problema della rappresentazione della figura; il paesaggio, la reinvenzione botanica, la convenzione della rappresentazione; gli oggetti, particolarmente gli oggetti d’uso, intercambiabili, moderni e antichi, storici e attuali; l’architettura, nella gamma delle sue realizzazioni, quale simbolo della città. Che s’intrecciano o s’articolano liberamente […].

Ma il piacere che scende da queste figurazioni sapientemente mosse garantisce che si tratta di storia e non si tratta di storia, che s’intuiscono raffronti e non s’intuiscono, che i riconoscibili sono e non sono. È cioè l’innegabile autonomia estetica instaurata da queste pitture studiate e turbinose ad alimentare la gioia degli occhi e del pensiero, consolando e turbando insieme. E il coinvolgimento agisce ancora più radicalmente perché portato e trattenuto dalla complessità delle convenzioni in atto – insolite, come si è detto, nel cosmo tendenzioso della pittura d’oggi.

(dalla Presentazione alla Galleria Seno, Milano, 1985)

Eleonora Bairati

È l’acquisizione in profondità della dimensione esistenziale della Milano di quegli anni [sessanta] che deve essere considerata se si vuole comprendere nel suo pieno significato il ricorrente affiorare dei temi del mondo contadino, il nocciolo delle “cose che si sanno”, la cui attualità, scevra di ogni compiacimento nostalgico, è vera perché passata al filtro della dimensione urbana: il luogo cioè dove si è consumato l’irreversibile processo della perdita di identità e di etica del mondo contadino. Questa coscienza non si perde mai nelle diverse declinazioni del tema lungo gli anni sessanta e settanta: dagli attrezzi agricoli – ormai meccanismi inutili – degli anni sessanta alla trasposizione in chiave allegorica – decadenza e “caduta” di un mondo – di un mito autenticamente popolare come quello di Coppi (La caduta del campione, 1965); dalla grande tela epica sull’inurbamento del mondo contadino (Il carro di Milano, 1973-74) all’emblematico Trittico del Giarolo (1974-75); dai ripetuti temi animalistici, spesso in chiave monumentale (Grande vacca, 1973), all’inquietante evocazione del disastro di Seveso (Festa sul Ticino, 1976-78).

In quegli anni e lungo questi percorsi il linguaggio di Leddi ha raggiunto la sua piena autonomia, sempre per vie eterodosse e puntigliosamente personali. Basti ricordare la fase compressa di concentratissima ricerca linguistica tra il 1967 e il 1970 (dopo l’importante mostra del 1966 alla Galleria Nuova Pesa di Roma), dedicata all’unico tema – meccanico-biologico-simbolico, ma, perché no, anche storico (correva il ’68…) – delle teste colpite, traumatizzate. I frutti di questa analisi si fanno sentire nella rinnovata centralità dello studio sul corpo umano (la “macchina” leonardesca), nel recupero convinto di una figuratività originale, che porta con sé anche il recupero del senso della storia. Storia della pittura, in primo luogo: Leddi è pittore colto e non teme di misurarsi con grandi momenti della tradizione, neanche nel vis-à-vis ravvicinato fino al d’après. Tradizione soprattutto lombarda, come nel tema frequentemente ripetuto della Maternità o nei “quadroni” del Miracolo della bambina (1973) e del citato Carro di Milano: una Lombardia ceranesca e borromea, certo non manzoniana.

E poi la storia tout court: ancora Milano è al centro delle luminose tele dedicate al Parco Sempione e all’Arco della Pace (1985, mostra alla Galleria Seno a Milano), nelle quali l’utopia neoclassica è sottilmente evocata in un’ipotesi figurativa di conciliazione non alienata di passato e presente.

(dalla Presentazione alla Università Luigi Bocconi, Milano, 1988)

Franco Loi

Si può parlare della vita? Se ne danno dei segni, e spesso sconosciuti a noi stessi. Ci vuole perciò coraggio a scrivere qualcosa della vita di un altro, sia pure un amico le cui vicende s’intrecciano fittamente alla nostra. Parlare della sua arte? L’arte parla da sola e non sopporta mediazioni. Ma forse è una strada più percorribile, se la cogliamo quale espressione di qualcosa che ci appartiene, di segni e simboli che sono anche nostri. Quando guardo i colori o il disegno di Piero Leddi vengo sempre invitato a pensare. Il suo non è un colore sensuale, come quello dei veneti, per esempio, né ha forzature espressioniste, come gli altolombardi, è un colore spesso accompagnato al segno, ai contorni, al carboncino, alla matita. “I colori sono allucinati, non facilitano la contemplazione: predominano l’azzurro, il rosso, l’ocra scuro” e “Il segno incide solchi come ferite e perciò l’interno è vitale, non solo visuale” diceva De Bartolomeis in una monografia del 1970.

La tentazione di Piero Leddi è l’intelligenza. Intendo dire che se il suo segno proviene dall’emozione, che è spesso, appunto, un moto che lo attraversa per il sopraggiungere del sentire o della memoria, c’è tuttavia costante, nella sua pittura e nel suo disegnare, il tentativo dell’intelletto di prendere possesso dell’operare e dei segni e delle immagini, il tentativo di acquisire il moto e il mezzo per esprimerlo alla coscienza, anche attraverso il fascino che gli stilemi pittorici o letterari del tempo hanno su di lui. Quando, nei suoi appunti, Leddi certifica gli approcci, gli innamoramenti – e vi figura tutta la pittura novecentesca – i riconoscimenti formali nei riguardi di artisti e opere, rivela una sua disposizione a strutturare e giustificare il proprio esercizio del mestiere, ma, soprattutto, la propria sincronia con l’intuizione simbolica del tempo. Ma non si tratta solo di questo. Egli, più profondamente, intende carpire ai propri segni una consapevolezza intellettuale. Non si tratta di sfiducia nei propri mezzi o timidezza – seppure un poco della timidezza che appartiene a tutti noi e che don Lorenzo Milani definiva “timidezza dei poveri” , affiora talora dai suoi scritti e dal suo modo di proporsi – si tratta di sete di verità e desiderio di padronanza intellettuale, quasi una goethiana sistemazione dell’epoca nell’opera e dell’opera nel tempo. E per questo spesso l’ironia attraversa il suo operare.

(da Piero Leddi. Dipinti e disegni, Charta, Milano, 1994)

Mario De Micheli

Forse, per introdurre il discorso su Piero Leddi, conviene iniziare con quell’opera ch’egli ha dipinto tra il ’73 e il ’74 e che s’intitola il Carro di Milano. È il “carro”, tirato da un paio di buoi, che simboleggia l’arrivo a Milano della sua famiglia […] da San Sebastiano Curone, il paese dell’Appennino tortonese collocato tra Piemonte, Lombardia e Liguria.

Sono luoghi assai vivi nel ricordo di Leddi, i luoghi dove sono vissuti sia il neoclassico Felice Giani sia Pellizza da Volpedo, artisti che in lui hanno senz’altro lasciato una traccia profonda. Nella sua simbologia, il Carro di Milano segna dunque una separazione dolorosa dalle proprie radici.

[…] L’esperienza nella metropoli lombarda ha costituito dunque per lui qualcosa di assolutamente diverso dagli anni vissuti a San Sebastiano Curone; ma nonostante le nuove amicizie, egli ha continuato ad essere un personaggio appartato. Intanto, nel ’55, partecipa al San Fedele con un quadro ormai tipicamente milanese: il Ponte della Ghisolfa e Carrà, che è in giuria, gli fa dare il secondo premio. Così conosce ora gli artisti del cosiddetto “realismo esistenziale”, appartenenti alla sua stessa generazione: Bodini, Guerreschi, Romagnoni, Banchieri, Vaglieri. Al tempo stesso, abbastanza rapidamente, incontra la simpatia di alcuni critici. Nel ’59 sono io che lo presento alla Galleria Alberti di Brescia. […] Allora, egli viveva un periodo d’incertezze, incline però soprattutto verso il mondo contadino. Il conflitto aperto tra città e campagna diventerà tuttavia, subito dopo, un momento essenziale del suo percorso. Cercavo di spiegarlo in una presentazione alla Galleria dell’Agrifoglio nel ’72. Dicevo: “Leddi non è certamente un pittore alla ricerca di una formula dì comodo, esorcizzante e consolatoria. I poli della sua dialettica si collocano nella contraddizione tra le sue immediate origini contadine e la violenza dell’immigrazione dentro l’ostile contesto della società urbana. Si può dire che ogni sua opera rechi i segni di questo dissidio, di questo reversibile odio-amore; di questa impossibilità della coscienza a mantenersi nell’arcaica condizione della ‘terra’ e al tempo stesso di questa difficoltà ad inserirsi nel ‘gioco’ aspro, difficile, insidioso della ‘città’. Il fascino e la ripulsa agiscono simultaneamente in lui nei due sensi, cosicché nostalgia e rifiuto, desiderio e diffidenza, critica ed elogio convivono all’interno dei suoi umori e delle sue inclinazioni, costituendo i termini della sua poetica e soprattutto il carattere, la fisionomia del suo esercizio espressivo”.

Per parecchi anni, tutto sommato, è questa la chiave di lettura a cui può affidarsi l’interpretazione di Leddi, sia per le “storie” che egli racconta delle famiglie e degli amori in auto, sia per i quadri dedicati a Coppi, più volte campione del Giro d’Italia.

[…] A questa data, siamo dunque al ’73, Leddi si è ormai inserito nel contesto milanese e già comincia a studiare i motivi che appaiono vivamente legati alle vicende della città. Così incomincia a manifestare un particolare interesse per i problemi della storia civile milanese, un interesse destinato ad aumentare. Il primo esplicito segno di una tale attenzione è indicato dall’opera su Giangiacomo Mora, accusato d’essere un “untore”, e suppliziato in piazza Vetra, dietro la Basilica di San Lorenzo.

[…] Il processo d’accettazione di Milano quale città esemplare, dopo il ’73, si va compiendo rapidamente, soprattutto a cominciare dalle opere che vanno dal ’76 all’88. Si guardi il Ballo all’Arena, la Madre in piazza Diaz e il Cane che si gratta dell’82, dove è in vista l’Arco della Pace, del resto ugualmente presente nell’Arco e teatro e nel Concerto al parco dell’anno dopo, nonché nel Parco Sempione e nella Cena in drogheria dell’85. Il fatto è che Leddi abita in via Canonica e quindi questi luoghi e questi monumenti li ha praticamente sotto gli occhi ogni volta che esce di casa.

Ormai però sono gli anni in cui Leddi, con pazienza e puntiglio, ha cominciato a studiare il grande tema della Rivoluzione francese. È il lavoro che sfocerà, nel luglio dell’89, in occasione del bicentenario di quell’avvenimento, nella mostra alla Sala Viscontea del Castello Sforzesco. […]

Dal ’90 ad oggi è però soprattutto Milano che Leddi dipinge: Milano come città, come teatro di una società inquieta e turbinosa, in crescita disordinata, con le periferie solitarie e abbandonate. Né lo stesso Leddi sfugge a tale inquietudine, all’ansia e al turbamento. È infatti così ch’egli dipinge i suoi paesaggi urbani della Milano del centro, della Stazione, del metrò. Ed ogni volta, nella sua rappresentazione, c’è una visione che rimanda ai presupposti di un’immagine che coinvolge l’uomo quale protagonista del proprio fato. Leddi una volta ha detto che, di una famosa sentenza di Braque, vorrebbe soltanto accettare la seconda parte. Braque sosteneva di amare “la regola che corregge l’emozione” e, insieme, “l’emozione che corregge la regola”. Leddi dice invece: “A rovescio di Braque vorrei poter dire, – così si esprime – amo solo l’emozione che corregge la regola”. È l’emozione, infatti, la sua unica legge, ma, insieme con l’emozione, egli non trascura i dati tecnici che possono fornire al proprio simbolismo l’ausilio di una sintesi capace di soddisfare ogni esigenza della propria identità formale. È quindi in questo senso ch’egli si muove nell’intrico dei problemi dì un linguaggio compatibile con la ricchezza della sua ispirazione.

In altre parole, Leddi sviluppa le proprie immagini cercando d’inventare uno spazio allegorico che superi il discorso descrittivo senza tuttavia rinunciarvi.

(da Piero Leddi. Milano, Regione Lombardia-Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente, Milano, 1995)

Anni Ottanta e Novanta

Figure
Giancarlo Consonni

Il corpo è il protagonista della pittura di Piero Leddi, il crocevia di una molteplicità di percorsi.

Il corpo umano nella sua nobiltà e bellezza costruttiva, eroico nel suo stesso ergersi. Ossa, tendini, muscoli: architettura mirabile, modello e sfida ai monumenti. Richiesta di verità che si pone con la semplice nudità: che si dà con naturalezza anche dove è inattesa (come negli spazi pubblici di Milano) ma che insieme è rivelatrice della scelta di questo pittore di esporsi, di mettersi a repentaglio, di esserci: conoscenza e condivisione, sia pure, come vedremo, con generosità riservata e guardinga.

Il corpo e la tecnica. Una tecnica sempre concretamente intesa: a partire dall’attrezzo che, mentre prolunga e potenzia il corpo e lo esonera parzialmente, entra in simbiosi con esso dando luogo a una terza entità: l’Uomo aratro (1965), il falegname incorniciato dal suo stesso strumento (Mio padre, 1973-75) e soprattutto lo splendido ciclo su Coppi (“contadino” delle stesse parti di Leddi, il Tortonese, patria anche di Pellizza da Volpedo e di Felice Giani, non meno a lui cari). In questo ampio lavoro maturato tra il 1965 e il 1973 la simbiosi è sviscerata mostrando giunture e legamenti, nervo e scheletro della bicicletta e per contro la natura macchinale del corpo gravato di impegno e fatica spropositati: volontà e materia, organico e inorganico unificati nella comune sofferenza introdotta nel mondo dalla scelta prometeica. […]

Il corpo nobile e prometeico di Leddi non è però mai dimentico della consanguineità che lo lega al mondo animale. E il pittore l’affronta come gli è congeniale: fino ai confini estremi: da quello genetico alle similitudini e prossimità più inquietanti, o delicate, o divertite, a conferma della ricchezza dei suoi registri. […]

Così nel sussumere il soffrire dei corpi, in uno con i desideri, i sogni, le passioni e le ansie che li attraversano, questa pittura si fa documento e interpretazione di un passaggio epocale: quello di una società e dei suoi singoli membri che rigettano le loro radici ancestrali: il legame ombelicale con la Madre Terra e la stretta contiguità e sintonia con il vivente (si veda in proposito Madre-sole-radici del 1975 e le molte maternità precedenti). È dunque l’epifania di una lunga sfida quella che Piero Leddi da decenni ci pone davanti agli occhi con pazienza: gli esiti esistenziali e antropologici della sfida che ha opposto l’artificio alla natura nel disperato tentativo di liberarsi o comunque di rimuovere dalla vista la presenza della morte.

In un libro pubblicato in Italia con un titolo leddiano (In autobus, a cura di D. Daniele, Empirìa, Roma 1993) Grace Paley, poetessa newyorkese, ha scritto: “Temo la natura / perché di natura sono mortale”. Ecco, Leddi dà conto di questa paura con lo sguardo lungo di chi è stato contadino.

Chi è stato contadino ha delle bestie della stalla la tenacia e la rassegnazione. La rivolta anche: ma su questa vince alla fine una pietas che può arrivare fino al sacrificio.

Rivolta e pietas, irrisione e dolcezza schiva scorrono nelle vene della pittura di Leddi che riesce così a dire di noi: a raffigurarci nel nostro essere un po’ tutti contadini e bestie rassegnate al tempo che ci fa alieni. È questo un legante di tutta la sua opera. […]

Qui siamo, io credo, nel fulcro germinativo della pittura di Leddi: la sua natura ossimorica, di coniugazione degli opposti, riconoscibile soprattutto nella luce e nel rapporto astratto/concreto (oltre che negli accostamenti e simbiosi già rammentati o sfiorati: organico/inorganico, nobiltà/miseria, civilizzazione/barbarie, oggetto/soggetto).

Soffermiamoci un momento sulla luce. I due estremi fra cui essa oscilla sono, da un lato, la luce del respirarsi reciproco delle cose e degli esseri, con colori che vanno dall’albicocca a un rosso di fumi da fonderia e di tramonti, e, dall’altro, la luce fredda, fosforescente e impietosa che si potrebbe aspettare in un teatro anatomico o in interrogatorio: la prima soffusa a disegnare un luogo e un tempo dell’abitare e del convivere, la seconda diretta a indagare e a distanziare: ingegnosa, corta, rappresa con poca ombra al pallore dei corpi. […]

Se il guardare di Leddi è anche un ricordare (che tuttavia nulla concede a compiacimenti e autoinganni), nel contempo esso attiva nei fatti una critica alla modernità: al suo tracciare un confine fra oggetto e soggetto, al suo opporre geometrie astratte alla ragione dei corpi.

Così la stessa astrazione è implicitamente oggetto di giudizio in questa pittura: non è mai lasciata libera di rifare da capo il mondo a suo piacimento ma è, al contrario, costretta a misurarsi con il peso, i limiti, le qualità sensibili, le singolarità irripetibili dei corpi e, per dirla con lo stesso Leddi, l’aspetto “commentabile”, e dunque condivisibile, del mondo.

La stessa prospettiva, che della separazione oggetto/soggetto è madre e figlia, non è usata da Leddi in modo meccanico: è anzi schiusa sulla singola figura, attenta a coglierne l’ansia di relazione, a registrarne la solitudine: come nei diversi quadri sul Parco Sempione dove la scena vuota del Teatro di Burri, palesemente contrapposta all’ammassarsi dei corpi incapaci di coreografie corali, non fa che rimarcare questa incapacità e tragica assenza. A un tale uso della prospettiva si lega poi il frequente sfondamento di interno ed esterno e la propensione a legare realtà e sogno in cui si proietta la ribellione e l’indignazione civile che percorre l’opera di questo artista: il suo chiedere libertà, innanzitutto a se stesso: contro ogni schema, contro ogni formula.

Se la maturità di questo atteggiamento è il risultato di un’intera vita, un passaggio notevole credo si possa indicare nel serrato scavo sul tema delle “teste colpite” svolto dal 1967 al 1970: “un ‘diario di teste’ quasi giornaliero” […].

Il tema tuttavia non inganni: c’è sì un lavoro sull’oggetto specifico – la testa sottoposta a violenza fisica, i modi e gli effetti di questa, le risposte biologiche, la loro rappresentazione e analisi ecc. ecc. – ma qui c’è dell’altro: il rinsaldarsi della radicalità di questa pittura che può avvenire grazie al suo riattrezzarsi negli orizzonti e nei mezzi, e con le proprie forze. Fino ad allora il laboratorio di Leddi non poco si era nutrito del lavoro di apripista svolto da Romagnoni, Guerreschi, Ceretti e Vaglieri e degli scambi con Bodini: e questo sia detto senza nulla togliere alla sua già inconfondibile linea di ricerca, al suo originale tentativo di far interagire ragione e sentimento, storia e indagine esistenziale, epica e lirica, tragedia e bellezza. Ma le “teste” – che pure ancora attendono una organica sistemazione e ricostruzione critica – sono a mio avviso una nuova pietra miliare che con quella iniziale condivide l’importanza: perché qui si struttura in modo maturo quello sguardo multiplo (esistenziale, antropologico e storico) e quello spessore autoriflessivo di cui ho cercato di dire e che costituisce lo stile personalissimo di questo importante artista del secondo Novecento.

(da Piero Leddi. Milano, Regione Lombardia-Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente, Milano, 1995)

Anni Duemila

Emigranti, sinopie e altre immagini

Testi di Mauro Corradini, Aurora Scotti Tosini, Raffaele De Grada, Francesca Pensa

Mauro Corradini

Ascrivibile per storia e vicenda poetica alla pittura verosimile, Leddi con difficoltà può essere “co-stretto” all’interno dei raggruppamenti e delle poetiche iconografiche che hanno animato il secondo dopoguerra, dal neorealismo, al realismo esistenziale, alla nuova figurazione e successivamente all’iperrealismo; poetiche da cui si è sempre tenuto lontano, per un diverso assunto che trova forse una sua giustificazione […] un po’ per desiderio di solitudine, un po’ perché diverso era il fine: Leddi cerca il significato individuale della storia, l’immagine simbolica realizzata con un segno secco e deciso, per autoriconoscersi. […]

In questa rigorosa quanto isolata posizione del pittore, ascrivibile alla cultura della verosimiglianza, anche la questione dello stile esce dai consueti ambiti del neorealismo; Leddi non può che rifiutare il tipico, come valore fondante dell’immagine, poiché dal tipico discende (può discendere) l’iterazione, come conseguenza inevitabile: «Lo stile ˗ afferma il pittore alla fine del decennio Sessanta ˗ viene oggi scambiato per la ripetizione di dati elementi mnemonici per aiutare la pigrizia ottica». Pigrizia ottica che per l’artista coincide con le forme inerti del pensiero. In questa sua anomalia, il costo di una solitudine intellettuale ed espressiva, che rende appartato e singolare il pittore nel panorama lombardo del secondo dopoguerra, cui per altro ha partecipato in forme alte. […] Leddi parte dal disegno, che diviene sotterraneo e palese filo conduttore di un’indagine su un’età storica, con le implicazioni che si sono indicate in apertura. Nonostante la straordinaria bravura, il disegno di Leddi non è mai descrittivo; è uno scavo. La matita è un bisturi non per trovare il cancro, ma la verità dell’animo, ad un tempo legame tra sentimento e ragione, tra razionale e irrazionale, per dirla con una dicotomia che meglio si presta a rendere esplicita l’intenzione espressiva dell’artista. […]

Nell’elaborazione grafica la tensione sperimentale, il bisogno di dare forza e voce al puro segno, la necessità di trascrivere nella lastra e con la lastra i ritmi gestuali della mano che agisce sul foglio, le macchie, le bruciature, i corrugamenti, divengono spesso protagonisti dell’opera: si prenda il tema delle teste […]. La testa di Leddi assume il valore inquieto di una riflessione non formale sull’uomo; la testa si contrae, emerge con forza dalle tracce mute dello sfondo, diviene elemento che prorompe nello spazio del foglio, come se lacerasse la razionalità della composizione, trattenuta dagli ambiti tesi delle strutture di sfondo, spesso coinvolte linguisticamente nella bidimensionale e volutamente piatta figura dei monocromi. […]

Due altri temi si susseguono con regolarità nell’opera incisa di Leddi, con una più accentuata continuità in certi momenti e una complessiva (sostanziale) costanza nell’apparire: si tratta del tema della caduta (Fausto e Serse Coppi) e della maternità. […]

Leddi riconduce la caduta inevitabilmente alla sua misura: da un lato la sua storia, la sua memoria, la conoscenza di una fragilità che è carattere degli abitanti della sua ristretta valle del Curone; dall’altro la cultura di appartenenza, quella popolare non “della gente”, che è la stessa che ha esplorato nelle numerose e alte pagine su Milano e sulla Grande Rivoluzione; dall’altro ancora, la lezione stilistica di una coerenza interiore, che non abbisogna di stilemi e formule ripetute […].

Concetti non dissimili si incontrano nella “maternità”, forse il tema più ricorrente in assoluto nella sua vicenda grafica; le prime maternità cominciano ad apparire ancora all’inizio degli anni Sessanta e praticamente ritornano costantemente nella sua riflessione. La maternità è il tema attraverso cui in forme dirette Leddi esplora gli umani sentimenti, il senso di appartenenza alla terra d’origine, e recupera la cultura visiva che ha osservato con occhio attento e curioso. E colto.

È forse il soggetto in cui le citazioni e le implicazioni espressive emergono con maggior vigore: nella stessa figura di una giovanile maternità viene al lettore il rinvio al disegno leonardesco, per esempio, che si coniuga con il bisogno di radici che fa apparire sulla lastra, con un segno rigoroso e classico, in questo caso, figure di memoria e di terra, come quella del vitello.

È il tema della dolcezza e del sentimento; per questo, anche la luce, il rapporto del bianco con il nero, carattere proprio dell’incisione, assume la rilevanza che diviene in seguito categoria in tutto il corpus grafico dell’artista: la luce traduce in simboli le presenze, dà forma all’informe, scopre il segno nella sua complessità di ricerca significante. La luce fa risaltare l’uso continuo di tratti diversi, di macchie e acidature a volte, di soffuse dimensioni materiche che l’artista svela attraverso l’acquatinta. In definitiva è la luce ad esaltare il ruolo decisivo della sperimentalità di un segno che non tende all’iterazione, ma all’invenzione. […]

Tutta la gamma di differenze e sfumature, dalle durezze di un segno che contorna e definisce, alla dolcezza di uno sfumato che sembra intenerire la figura (specialmente) della madre, tutta la varietà dei segni che Leddi utilizza sembra esaltarsi attraverso gli equilibri di luce: Leddi nega la classicità, non la misura. Perché attraverso la luce, l’incisore sembra ritmare la sua opera calcografica in un ricorso costante alla misura dell’equilibrio, che giustifica le forme e dà loro il senso contrapposto e rilevabile della ragione e del sentimento.

(da Piero Leddi. Opera incisa 1956-2002, Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2003)

Aurora Scotti Tosini

Delle migrazioni continuate per buona parte del XX secolo, Piero Leddi, nato a San Sebastiano Curone e a sua volta “emigrato in città” per educarsi e dedicarsi alla pittura – come un altro grandissimo figlio di San Sebastiano Curone, quel Felice Giani che fu rivoluzionario protagonista della pittura italiana tra Sette e Ottocento – conserva una vivida memoria, tanto da farne oggetto di suggestiva rielaborazione pittorica.

La formazione di Leddi è stata quella di un pittore attento al vero, non nella accezione ottocentesca, ma in quella criticamente esistenziale che sostanziava le ricerche artistiche milanesi della figurazione nel secondo dopoguerra […].

Per sua scelta peculiare Leddi ha poi scavato spesso nella storia, alla ricerca degli snodi critici capaci di evidenziare il rapporto fra consapevolezza soggettiva e coralità d’azione di un popolo inteso come protagonista in costante movimento, puntando su eventi o momenti in cui la storia ha imposto l’abbandono di lavori e mestieri a lungo coltivati, di luoghi (come il grande mulino) e di gesti simbolo di una peculiare identità, per porre obiettivi e ritmi nuovi alla vita e al tempo del lavoro; e questo è avvenuto non senza risvolti costantemente autobiografici, in una ricorrente trasfigurazione dei fatti, dei luoghi e dei momenti dell’esperienza di vita contadina che aveva caratterizzato la sua prima giovinezza nella Val Curone e che andava velocemente perdendo di competitività e quindi, come si usa dire, di senso. […]

E così Leddi ha fatto nei confronti di Giuseppe Pellizza […], realizzando un complesso ciclo pittorico sulle migrazioni, che comprende incisivi, sofferti o disincantati ritratti individuali ma anche una serie di tele o fogli di grande dimensione, simili a dei veri e propri “affreschi”, a volte quasi monocromatici – ad un tempo monumentali ed estremamente emozionanti nella vastità dell’impianto spaziale – che sviluppano il tema dell’emigrazione in una sequenza di quadri temporali.

Si parte dalla evocazione delle penombre dei colli e dei monti attorno alla Val Curone, e dalla festa d’addio con cui gli emigranti venivano salutati nelle sedi delle Società di Mutuo Soccorso, per giungere alla catena dell’Appennino che blocca il passo verso la Liguria e che, una volta oltrepassata, si apre al porto di Genova, brulicante di vitalità nella sua stessa stratificata articolazione e struttura. Nella trasfigurazione di Piero Leddi i contadini piemontesi arrivano a vedere il mare sbucando con le loro teste al di sopra dei monti, ma nello stesso tempo il mare, il porto e la città che si presentano allo sguardo sono quelli che si hanno, saldando la veduta dall’alto con quella che si delinea a chi si allontana prendendo la via del mare e guarda la terra per un ultimo saluto. Una visione multipla e complessa che, ancora una volta, sembra rimeditare o, comunque, giungere ad esiti confrontabili con quella che storicamente fu la più affascinante e simbolica rappresentazione della grandezza e della ricchezza della Repubblica di Genova, raffigurata nel grande quadrone con la Madonna regina della città prodotto nella bottega di Domenico Fiasella attorno al 1638 per commissione dei genovesi migrati in Sicilia.

Ma accanto alla storia, anche il mito entra nella elaborazione di Leddi caricandosi di sfumature sottilmente simboliche: quelle partenze sembrano evocare anche una favola ancora più antica, e un mito legato alla terra. La sottrazione di forza-lavoro alla valle diventa una specie di ratto d’Europa, e la stessa ansa del porto, coniugandosi all’energia taurina dell’inarcato dorso dell’animale, sembra andar oltre i propri limiti, dilatandosi verso il nuovo, verso i luoghi di quell’America ignota – i cui nomi gli emigranti neppure sapevano esattamente pronunciare, come ben appare in alcuni dei titoli scelti da Leddi per i propri disegni dopo aver rimeditato sulle testimonianze di emigrati liguri pubblicate da Antonio Gibelli – ma che erano comunque obiettivi carichi di speranza di un futuro migliore.

(dalla Presentazione alla Società Operaia, Volpedo, 2006)

Raffaele De Grada

Piero Leddi, artista che stimo da molti anni, di cui ho scritto varie volte e che ho sempre definito un pittore di storia, ora in un momento così difficile fa rinascere un personaggio popolare. Quest’opera dimostra che abbiamo tutti un piccolo Bertoldo da tirare fuori che ci diverte tanto. Nobilitato nel bronzo, seduto di traverso, come nelle incisioni del Mattioli dove si presenta al re con un crivello in capo porgendo una torta. Il Bertoldo seduto con il suo cappelluccio sull’asino, una visione quasi da Presepe dell’Alto Reno, che arriva da noi con l’aura di Marino Marini. […]

Cosa dire di un artista importante? Leddi con il suo studio di via Canonica, dove ha lavorato tutta la vita, si estranea ora con un’opera che lo lega al territorio dove è nato, una festa che impegna gli abitanti dei più vari paesi. Nei giorni in cui si pensa con malinconia ai fast food, Bertoldo ci ricorda i pasti frugali contadini, consumati nella stalla, la sera, quando si parlava con il fiato delle mucche come calorifero. Quest’opera fa riflettere: quando sembra che tutto dorma, Bertoldo ci insegna tanto. La vita è anche gioco.

Numerosi gli schizzi preparatori, dalle forme in controluce come le ombre cinesi alle visioni più tipiche, proprie di Leddi. Questa è una prima scultura, ma è come se ce ne fossero altre, tante. È normale, vero talento degli artisti. L’asino con l’aria mite in realtà è problematico, va solo quando vuole lui e Bertoldo lo sa, ma ha tempo e pazienza. […] Anche Sancho con il suo ciuco ci ricorda Bertoldo. Tante sono le immagini del nostro amico in Europa. E molto rappresentato in Italia meridionale è l’asinello con il suo contadino in ceramica, sempre con un cappelluccio in testa.

Leddi ha dipinto di frequente gli animali come la Vacca che si volta del 1959, carbone e tempera, il Torello del 1980, oppure Uccello africano del 1992, tempera e matita, che ricorda Sutherland e Pellizza.

Ma c’è anche l’amore per l’uomo come il Coppi chino sulla bicicletta, alle cui spalle sporge il fratello Serse, un Giano bifronte bonario che ho visto in una recente mostra a Tortona. Ora per incanto arriva il Bertoldo con il suo asinello dinoccolato da via Canonica, e si posa nella piazza dove giocano i bambini.

Nel 1964 ho scritto per una personale nella Galleria della Sala di cultura del Comune di Modena. Leddi in questi quarant’anni non ha deluso la mia attesa, sempre coerente. Il pittore di storia ora incomincia nobilmente la scultura, non lontano da San Sebastiano Curone.

(da Piero Leddi. Sculture. Omaggio a Bertoldo di Retorbido, per l’inaugurazione del monumento, Retorbido, 2009)

Francesca Pensa

Tra gli anni sessanta e settanta, Leddi affronta nuovi temi: la rappresentazione del corpo comincia a interessare la sua arte e le modalità espressive scelte per questo soggetto riflettono lo sviluppo del percorso creativo del maestro e la sua percezione, trasformata in immagine, dell’uomo moderno, immerso nel tempo e nello spazio della contemporaneità.

Scrive Leddi in riferimento a quel tempo: “Studio le tavole anatomiche di Vesalio, per reinterpretazioni libere del corpo umano”. […] Anche Leddi disseziona i corpi, ma l’uomo che emerge dalla sua ricerca sembra appartenere a un’altra specie, nata dalla temperie della modernità.

Le sue anatomie mostrano corpi smembrati, tagliati da differenti e spesso sovrapposti punti di vista, descritti da un chiaroscuro che inventa volumetrie fantastiche, illuminati da luci mentali più che ottiche; le posture sono condizionate da un movimento costante, evidenziato da linee continue, capaci di sottolineare una tensione dinamica che nella frequente rappresentazione della testa dimostra la sua natura interiore più che fisica.

È questo l’uomo della contemporaneità, non più organismo assoluto che in sé contiene la perfezione di un cosmo logico e razionale, ma piuttosto immagine parziale dell’accidentalità del singolo e della individualità di ciascuno, dentro un universo che ha perduto la certezza di una provvidenziale completezza ed è invece percepito nella sua instabile relatività. […]

Successivamente la pittura di Leddi, che non raramente si è posta in dialettico e impegnato raffronto con l’arte del nostro passato, si dirige verso tematiche ancora diverse, che indagano in varie opere la forma e l’idea della città, con particolare attenzione a Milano, fino al celebre ciclo ispirato alla Rivoluzione francese, sensibile espressione di un nuovo concetto di pittura civile, nel quale la memoria storica diviene antiretorica meditazione sul presente.

Il tema del corpo ritorna comunque anche in lavori più recenti, nei quali le linee aspre e veloci degli anni sessanta e settanta lasciano spazio a forme più riconoscibili ma sempre filtrate attraverso uno sguardo interiore, costantemente puntato sull’uomo abitatore della nostra contraddittoria contemporaneità.

(dalla Presentazione allo Spazio-Laboratorio Hajech-Liceo Artistico Statale di Brera, Milano, 2009)