Anni Ottanta e Novanta. Milano

Testi di Giancarlo Majorino, Eleonora Bairati, Franco Loi, Mario De Micheli

Giancarlo Majorino

Il sogno della ragione domina la pittura di Leddi. E, come nel prediletto Settecento, l’idea di una natura sostanzialmente positiva, benché celata, idealizzabile ancora con profitto nei suoi mille attributi. Ecco allora le prospettive, le figure umane, i paesaggi, gli utensili, in una pace immaginaria o in una guerra quotidiana nell’esaltazione fantastica e nell’aderenza realistica. Un laboratorio ampio e insolito che conosce, attraversa ma nega le negazioni della pittura contemporanea. Il veicolo che consente tale spostamento è dato dal racconto, dalle figurazioni, dalle rappresentazioni ideali, pratiche, allegoriche, simboliche, caricaturali, che gremiscono e conducono le scene, affidate in primo luogo alla forza saettante di un disegno inventivo, flessibile, ricco di umori e di vitalità. Che la natura sia stata degradata, si riduca e si concentri nel suo nuovo stato di natura lavorata od ex natura è ben presente, ma la fertilità di quell’idea-guida fa sì che le stesse persone e i loro oggetti facendone parte la ricostituiscano nella profondità vasta del termine, riarmonizzandoci ad essa. Accade dunque che progetti si aprano e si svolgano fondandosi su diversi temi figurativi; quattro, essenzialmente: il corpo, le comparazioni anatomiche, l’idealità e la deformazione nel problema della rappresentazione della figura; il paesaggio, la reinvenzione botanica, la convenzione della rappresentazione; gli oggetti, particolarmente gli oggetti d’uso, intercambiabili, moderni e antichi, storici e attuali; l’architettura, nella gamma delle sue realizzazioni, quale simbolo della città. Che s’intrecciano o s’articolano liberamente […].

Ma il piacere che scende da queste figurazioni sapientemente mosse garantisce che si tratta di storia e non si tratta di storia, che s’intuiscono raffronti e non s’intuiscono, che i riconoscibili sono e non sono. È cioè l’innegabile autonomia estetica instaurata da queste pitture studiate e turbinose ad alimentare la gioia degli occhi e del pensiero, consolando e turbando insieme. E il coinvolgimento agisce ancora più radicalmente perché portato e trattenuto dalla complessità delle convenzioni in atto – insolite, come si è detto, nel cosmo tendenzioso della pittura d’oggi.

(dalla Presentazione alla Galleria Seno, Milano, 1985)

Eleonora Bairati

È l’acquisizione in profondità della dimensione esistenziale della Milano di quegli anni [sessanta] che deve essere considerata se si vuole comprendere nel suo pieno significato il ricorrente affiorare dei temi del mondo contadino, il nocciolo delle “cose che si sanno”, la cui attualità, scevra di ogni compiacimento nostalgico, è vera perché passata al filtro della dimensione urbana: il luogo cioè dove si è consumato l’irreversibile processo della perdita di identità e di etica del mondo contadino. Questa coscienza non si perde mai nelle diverse declinazioni del tema lungo gli anni sessanta e settanta: dagli attrezzi agricoli – ormai meccanismi inutili – degli anni sessanta alla trasposizione in chiave allegorica – decadenza e “caduta” di un mondo – di un mito autenticamente popolare come quello di Coppi (La caduta del campione, 1965); dalla grande tela epica sull’inurbamento del mondo contadino (Il carro di Milano, 1973-74) all’emblematico Trittico del Giarolo (1974-75); dai ripetuti temi animalistici, spesso in chiave monumentale (Grande vacca, 1973), all’inquietante evocazione del disastro di Seveso (Festa sul Ticino, 1976-78).

In quegli anni e lungo questi percorsi il linguaggio di Leddi ha raggiunto la sua piena autonomia, sempre per vie eterodosse e puntigliosamente personali. Basti ricordare la fase compressa di concentratissima ricerca linguistica tra il 1967 e il 1970 (dopo l’importante mostra del 1966 alla Galleria Nuova Pesa di Roma), dedicata all’unico tema – meccanico-biologico-simbolico, ma, perché no, anche storico (correva il ’68…) – delle teste colpite, traumatizzate. I frutti di questa analisi si fanno sentire nella rinnovata centralità dello studio sul corpo umano (la “macchina” leonardesca), nel recupero convinto di una figuratività originale, che porta con sé anche il recupero del senso della storia. Storia della pittura, in primo luogo: Leddi è pittore colto e non teme di misurarsi con grandi momenti della tradizione, neanche nel vis-à-vis ravvicinato fino al d’après. Tradizione soprattutto lombarda, come nel tema frequentemente ripetuto della Maternità o nei “quadroni” del Miracolo della bambina (1973) e del citato Carro di Milano: una Lombardia ceranesca e borromea, certo non manzoniana.

E poi la storia tout court: ancora Milano è al centro delle luminose tele dedicate al Parco Sempione e all’Arco della Pace (1985, mostra alla Galleria Seno a Milano), nelle quali l’utopia neoclassica è sottilmente evocata in un’ipotesi figurativa di conciliazione non alienata di passato e presente.

(dalla Presentazione alla Università Luigi Bocconi, Milano, 1988)

Franco Loi

Si può parlare della vita? Se ne danno dei segni, e spesso sconosciuti a noi stessi. Ci vuole perciò coraggio a scrivere qualcosa della vita di un altro, sia pure un amico le cui vicende s’intrecciano fittamente alla nostra. Parlare della sua arte? L’arte parla da sola e non sopporta mediazioni. Ma forse è una strada più percorribile, se la cogliamo quale espressione di qualcosa che ci appartiene, di segni e simboli che sono anche nostri. Quando guardo i colori o il disegno di Piero Leddi vengo sempre invitato a pensare. Il suo non è un colore sensuale, come quello dei veneti, per esempio, né ha forzature espressioniste, come gli altolombardi, è un colore spesso accompagnato al segno, ai contorni, al carboncino, alla matita. “I colori sono allucinati, non facilitano la contemplazione: predominano l’azzurro, il rosso, l’ocra scuro” e “Il segno incide solchi come ferite e perciò l’interno è vitale, non solo visuale” diceva De Bartolomeis in una monografia del 1970.

La tentazione di Piero Leddi è l’intelligenza. Intendo dire che se il suo segno proviene dall’emozione, che è spesso, appunto, un moto che lo attraversa per il sopraggiungere del sentire o della memoria, c’è tuttavia costante, nella sua pittura e nel suo disegnare, il tentativo dell’intelletto di prendere possesso dell’operare e dei segni e delle immagini, il tentativo di acquisire il moto e il mezzo per esprimerlo alla coscienza, anche attraverso il fascino che gli stilemi pittorici o letterari del tempo hanno su di lui. Quando, nei suoi appunti, Leddi certifica gli approcci, gli innamoramenti – e vi figura tutta la pittura novecentesca – i riconoscimenti formali nei riguardi di artisti e opere, rivela una sua disposizione a strutturare e giustificare il proprio esercizio del mestiere, ma, soprattutto, la propria sincronia con l’intuizione simbolica del tempo. Ma non si tratta solo di questo. Egli, più profondamente, intende carpire ai propri segni una consapevolezza intellettuale. Non si tratta di sfiducia nei propri mezzi o timidezza – seppure un poco della timidezza che appartiene a tutti noi e che don Lorenzo Milani definiva “timidezza dei poveri” , affiora talora dai suoi scritti e dal suo modo di proporsi – si tratta di sete di verità e desiderio di padronanza intellettuale, quasi una goethiana sistemazione dell’epoca nell’opera e dell’opera nel tempo. E per questo spesso l’ironia attraversa il suo operare.

(da Piero Leddi. Dipinti e disegni, Charta, Milano, 1994)

Mario De Micheli

Forse, per introdurre il discorso su Piero Leddi, conviene iniziare con quell’opera ch’egli ha dipinto tra il ’73 e il ’74 e che s’intitola il Carro di Milano. È il “carro”, tirato da un paio di buoi, che simboleggia l’arrivo a Milano della sua famiglia […] da San Sebastiano Curone, il paese dell’Appennino tortonese collocato tra Piemonte, Lombardia e Liguria.

Sono luoghi assai vivi nel ricordo di Leddi, i luoghi dove sono vissuti sia il neoclassico Felice Giani sia Pellizza da Volpedo, artisti che in lui hanno senz’altro lasciato una traccia profonda. Nella sua simbologia, il Carro di Milano segna dunque una separazione dolorosa dalle proprie radici.

[…] L’esperienza nella metropoli lombarda ha costituito dunque per lui qualcosa di assolutamente diverso dagli anni vissuti a San Sebastiano Curone; ma nonostante le nuove amicizie, egli ha continuato ad essere un personaggio appartato. Intanto, nel ’55, partecipa al San Fedele con un quadro ormai tipicamente milanese: il Ponte della Ghisolfa e Carrà, che è in giuria, gli fa dare il secondo premio. Così conosce ora gli artisti del cosiddetto “realismo esistenziale”, appartenenti alla sua stessa generazione: Bodini, Guerreschi, Romagnoni, Banchieri, Vaglieri. Al tempo stesso, abbastanza rapidamente, incontra la simpatia di alcuni critici. Nel ’59 sono io che lo presento alla Galleria Alberti di Brescia. […] Allora, egli viveva un periodo d’incertezze, incline però soprattutto verso il mondo contadino. Il conflitto aperto tra città e campagna diventerà tuttavia, subito dopo, un momento essenziale del suo percorso. Cercavo di spiegarlo in una presentazione alla Galleria dell’Agrifoglio nel ’72. Dicevo: “Leddi non è certamente un pittore alla ricerca di una formula dì comodo, esorcizzante e consolatoria. I poli della sua dialettica si collocano nella contraddizione tra le sue immediate origini contadine e la violenza dell’immigrazione dentro l’ostile contesto della società urbana. Si può dire che ogni sua opera rechi i segni di questo dissidio, di questo reversibile odio-amore; di questa impossibilità della coscienza a mantenersi nell’arcaica condizione della ‘terra’ e al tempo stesso di questa difficoltà ad inserirsi nel ‘gioco’ aspro, difficile, insidioso della ‘città’. Il fascino e la ripulsa agiscono simultaneamente in lui nei due sensi, cosicché nostalgia e rifiuto, desiderio e diffidenza, critica ed elogio convivono all’interno dei suoi umori e delle sue inclinazioni, costituendo i termini della sua poetica e soprattutto il carattere, la fisionomia del suo esercizio espressivo”.

Per parecchi anni, tutto sommato, è questa la chiave di lettura a cui può affidarsi l’interpretazione di Leddi, sia per le “storie” che egli racconta delle famiglie e degli amori in auto, sia per i quadri dedicati a Coppi, più volte campione del Giro d’Italia.

[…] A questa data, siamo dunque al ’73, Leddi si è ormai inserito nel contesto milanese e già comincia a studiare i motivi che appaiono vivamente legati alle vicende della città. Così incomincia a manifestare un particolare interesse per i problemi della storia civile milanese, un interesse destinato ad aumentare. Il primo esplicito segno di una tale attenzione è indicato dall’opera su Giangiacomo Mora, accusato d’essere un “untore”, e suppliziato in piazza Vetra, dietro la Basilica di San Lorenzo.

[…] Il processo d’accettazione di Milano quale città esemplare, dopo il ’73, si va compiendo rapidamente, soprattutto a cominciare dalle opere che vanno dal ’76 all’88. Si guardi il Ballo all’Arena, la Madre in piazza Diaz e il Cane che si gratta dell’82, dove è in vista l’Arco della Pace, del resto ugualmente presente nell’Arco e teatro e nel Concerto al parco dell’anno dopo, nonché nel Parco Sempione e nella Cena in drogheria dell’85. Il fatto è che Leddi abita in via Canonica e quindi questi luoghi e questi monumenti li ha praticamente sotto gli occhi ogni volta che esce di casa.

Ormai però sono gli anni in cui Leddi, con pazienza e puntiglio, ha cominciato a studiare il grande tema della Rivoluzione francese. È il lavoro che sfocerà, nel luglio dell’89, in occasione del bicentenario di quell’avvenimento, nella mostra alla Sala Viscontea del Castello Sforzesco. […]

Dal ’90 ad oggi è però soprattutto Milano che Leddi dipinge: Milano come città, come teatro di una società inquieta e turbinosa, in crescita disordinata, con le periferie solitarie e abbandonate. Né lo stesso Leddi sfugge a tale inquietudine, all’ansia e al turbamento. È infatti così ch’egli dipinge i suoi paesaggi urbani della Milano del centro, della Stazione, del metrò. Ed ogni volta, nella sua rappresentazione, c’è una visione che rimanda ai presupposti di un’immagine che coinvolge l’uomo quale protagonista del proprio fato. Leddi una volta ha detto che, di una famosa sentenza di Braque, vorrebbe soltanto accettare la seconda parte. Braque sosteneva di amare “la regola che corregge l’emozione” e, insieme, “l’emozione che corregge la regola”. Leddi dice invece: “A rovescio di Braque vorrei poter dire, – così si esprime – amo solo l’emozione che corregge la regola”. È l’emozione, infatti, la sua unica legge, ma, insieme con l’emozione, egli non trascura i dati tecnici che possono fornire al proprio simbolismo l’ausilio di una sintesi capace di soddisfare ogni esigenza della propria identità formale. È quindi in questo senso ch’egli si muove nell’intrico dei problemi dì un linguaggio compatibile con la ricchezza della sua ispirazione.

In altre parole, Leddi sviluppa le proprie immagini cercando d’inventare uno spazio allegorico che superi il discorso descrittivo senza tuttavia rinunciarvi.

(da Piero Leddi. Milano, Regione Lombardia-Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente, Milano, 1995)