Anni Settanta. Teste 1967-70

Testi di Piero Leddi, Francesco De Bartolomeis, Mario De Micheli

Piero Leddi

Pensavo, nel 1966-67, che non avrei teorizzato la pittura e neanche progettato troppo, che era tempo di sviluppare pratiche e tecniche nel senso del mestiere. Avevo esaurito delle possibilità formali: copiavo dalla natura quello che vedevo con gli occhi e la simbologia che sperimentavo era slittata nell’araldica e nei tarocchi.

Ero incapace di cogliere il senso delle strutture del corpo umano, per gli aspetti fisionomici che fanno distinguere un essere dall’altro semplicemente dal modo di camminare, o perché su una faccia si accumulano plasticamente le biografie degli avvenimenti: cene, sonni, bugie, schiaffi.

Ero partito da uno spunto un po’ comico – quello di registrare i gesti di consuetudine per la manutenzione di una testa, come radersi, pettinarsi, introdurre un cucchiaio in bocca, mettersi gli occhiali, lavarsi i denti ecc., insomma il cumulo dei gesti quotidiani limitati alla testa-faccia. […]

Nel 1966 faccio un viaggio in Germania est: Lipsia, Dresda, Buchenwald, Muro di Berlino.

L’emozione per la testa colpita nasce durante la visita a Buchenwald, vedendo gli apparati di esecuzione (sparavano alla nuca da uno sportellino) e ricordando anche i fotogrammi di Kennedy a Dallas.

L’idea interferente è quella di forze esterne, che traumatizzano. […]

Studio l’argomento, mi interesso a libri di medicina: anatomia topografica, radiografie di traumatismi cranici, ecc.

La testa, come dice De Bartolomeis, è il simbolo della centralità organico-fisiologica individuale. La mia intenzione è di fondere ritmi organici con ritmi meccanici. Seguo questa delimitazione, per dare un carattere sistematico alla ricerca espressiva: desiderio di uscire dal naturalismo, ma anche di evitare un astrattismo non commentabile. […]

Descrivo tutto un repertorio della meccanica e della resistenza materiali, ad esempio presso-flessione, flesso-torsione, taglio, oscillazioni, decomposizione delle forze, ecc. E tendo ad una maggiore essenzialità geometrica, come se si trattasse di risolvere un teorema. Adotto un colore non naturalistico, senza ombre, con poca plasticità.

Decido anche di usare segni di convenzione, al modo dei disegnatori industriali […].

Per la luce adotto questa soluzione: una sorgente luminosa scende bianca dall’alto e mangia le parti alte degli oggetti; un’altra (tipo riverbero) sale dal basso, rossa di terra; altre due, filtrate da eventuali vegetazioni, si muovono orizzontalmente, una da destra e una da sinistra, mentre controluce l’ombra rimane al centro, ottenuta da ciò che le luci hanno lasciato.

Risultati ambigui come sempre, in una quantità cospicua di studi e incisioni, tra cui Sei teste, lito e intaglio, che stampo da Giorgio Upiglio.

Il senso che mi è rimasto di questo lavoro è di avere desiderato di cogliere il cambiamento di forma che avviene dopo una ferita e durante la rigenerazione, e di aver tentato di conoscere l’esterno dall’interno.

(da Piero Leddi. Dipinti e disegni, Charta, Milano, 1994)

Francesco De Bartolomeis

Non è un ancoraggio fisico-dinamico (la banalità dell’uomo degradato a macchina) risolto in termini prevalentemente geometrici quali simboli di forze, di vettori, di resistenze: è prevalente invece l’inerzia organica di tutto questo, la risultante come incontro di ritmi organici e di ritmi meccanici. Di qui sollecitazioni con effetto di trauma, un coinvolgimento psicopatologico. Le teste sopportano incidenti. L’artista le esplora, blocca o dinamizza i loro rapporti interni, ingrandisce le loro particolarità per scoprire aspetti che vanno al di là della consueta riconoscibilità formale.

L’ambiguità ha trovato un centro, e questo centro viene approfondito, tenuto lontano da distrazioni narrative o aggiuntive. Tutto lo spazio di vita è ridotto a ciò che l’uomo riesce ad avvertire. La testa è il massimo di vitalità e insieme il massimo di astrazione. L’essenzializzazione geometrica accetta di essere spuria e contraddetta perché non implica un distacco da una complessa vitalità organica, una frigida precisazione di immagini, una facile elusione dell’intrico e del groviglio di esperienze reali. L’unilateralità razionale è la cosa più lontana dalla ricerca di Leddi.

Pertanto ci sembra di poter interpretare la sua produzione più recente come un originale e contrastato tentativo di difesa della figurazione e non come una improvvisa rottura della ricerca precedente, per volgersi, senza una vera convinzione, a soluzioni tendenzialmente astratte. Tale difesa non si esaurisce nell’ambito formale perché piuttosto riguarda la congruenza con eventi vitali all’interno di una situazione contraddittoria che non maschera e non nasconde ambiguità debolezza insicurezza. Una situazione dunque penetrabile e aggredibile da tutte le parti e che tenta di serrarsi in se stessa per sostenere l’urto. Perciò gli elementi geometrici hanno una tensione vitale, sono elementi vivi che non dissimulano la loro origine organica e la sofferenza che tale origine comporta. Proprio il rapporto tra ritmi organici e ritmi meccanici determina una situazione ambigua. I primi danno forza ma insieme portano alla dissoluzione. Ci sono perciò dolorosi impatti, traumi con vari effetti. Proprio per il suo collocarsi in punti di crisi, la ricerca di Leddi è ben diversa dalle tante esercitazioni sul tema della macchina e del meccanico che pretendono di valere come sostanziali aggiornamenti visuali ed artistici.

(da Francesco De Bartolomeis, Piero Leddi, Loescher, Torino, 1970)

Mario De Micheli

L’attività “grafica” di Leddi non ha mai rappresentato per lui un lavoro marginale. Lungo tutto l’arco di questo periodo, con accanita passione intellettuale, egli ha riempito d’immagini migliaia di fogli: per capire, per capirsi, per disarticolare e articolare i motivi della realtà per analizzarne le situazioni, per definirle per tradurne le connotazioni.

È raro trovare un artista che abbia vissuto e viva la propria dimensione storica e individuale con tanta tensione morale, con tanto inquieto assillo.

Leddi non è certamente un pittore alla ricerca di una formula di comodo, esorcizzante e consolatoria. I poli della sua dialettica si collocano nella contraddizione tra le sue immediate origini contadine e la violenza dell’immigrazione dentro l’ostile contesto della società urbana. Si può dire che ogni sua opera reca i segni di questo dissidio, di questo reversibile odio-amore; di questa impossibilità della coscienza a mantenersi nell’arcaica condizione della “terra” e al tempo stesso di questa difficoltà ad inserirsi nel “gioco” aspro, difficile, insidioso della “città”.

Il fascino e la ripulsa agiscono simultaneamente in lui nei due sensi, cosicché nostalgia e rifiuto, desiderio e diffidenza, critica ed elogio convivono all’interno dei suoi umori e delle sue inclinazioni, costituendo i termini della sua poetica e soprattutto il carattere, la fisionomia del suo esercizio espressivo.

Non è un caso che Leddi, partito da una tematica rurale vi sia oggi riapprodato. Si guardino infatti gli “studi” per la morte di un contadino, in cui egli, mettendo a profitto il duro tirocinio di linguaggio di tutti questi anni, ritenta la via del racconto e dell’apologo.

Tra quella partenza e questo arrivo, si pongono i temi degli amori in automobile, delle discussioni tra intellettuali, i temi della caduta e della morte del campione sportivo, quelli aggressivi della famiglia e i temi della repressione, di cui la sequenza delle teste colpite è indubbiamente il risultato più alto. Leddi mescola irritazione ed elegia, rivolta e dubbio, spirito epigrammatico e abbandono fiabesco, antidoti e veleni in un continuo ricambio di modi, di ricerche, di affermazioni graficamente evidenti e di negazioni esercitate sulla qualità che forse gli è maggiormente congeniale: la qualità, appunto, di una “scrittura” scattante e tagliente.

Chi ha cercato d’interpretare Leddi in maniera diversa è andato fuori strada. La storia di Leddi va letta nel processo formativo della generazione post-realista di Guerreschi, Romagnoni, Ferroni, Bodini. Perché gli si dovrebbe inventare una storia diversa e perché, soprattutto, per mere ragioni di gusto, sia pure travestite di ragioni critico-scientifiche, assegnargli una direzione opposta da seguire?

Ora Leddi è qui, a ribadirci la più sicura autenticità del suo itinerario, la sua scelta a non tradire se stesso pur nella complessità delle esperienze passate.

(dalla Presentazione alla Galleria L’Agrifoglio, Milano, 1972)