Anni Settanta. Il Carro di Milano e la Festa sul Ticino

Testi di Enzo Fabiani. Giorgio Seveso, Elvira Cassa Salvi

Enzo Fabiani

Circa venti anni di ricerche, di passioni, di scoramenti e furori hanno via via maturato Piero Leddi, facendo di lui un uomo e un artista destinato a trovare la sua propria voce, il suo proprio accento mediante una sorta di lento martirio che per diventare tale, ossia testimonianza esatta e non turbata, esige una rara forza spirituale e intellettuale, ed a volte del vero e proprio eroismo non soltanto poetico. È il risultato di una ricerca che ha portato Leddi a procedere per cicli pittorici. […]

Avventura poetica che ha qualcosa di terragno e medioevale; che è legata ad avvenimenti naturali e domestici (il temporale, il mugliar della vacca, il morso della vipera); che procede con rabbia e fatica come una linfa viva dentro un albero morso da un gelo crudele; che riconosce i fiori e le piante, e gli insetti ad essi nemici: ma che tuttavia ha precisa coscienza che ogni avvenimento anche naturale ha senso soltanto se è in funzione dell’uomo.

[…] Siamo così in un mondo compatto e violento, ma anche psicologicamente disposto alla contemplazione da una parte e all’esaltazione dall’altra.

Contemplazione dei fenomeni naturali (si pensi a certe descrizioni di Paolo Diacono), dei volti, delle immagini familiari. Esaltazione degli “eroi” della zona, del paese: che si fa compianto quando finiscono tragicamente (ed ecco i compianti per Serse Coppi), pur restando sempre dei simboli per il coraggio che hanno avuto di andarsene, di lasciare il fango, la miseria.

Ora questi accenni non pretendono affatto di fare la storia dell’attività di Leddi, che è già assai lunga; ma di cercar di capire almeno qualcuno dei motivi del suo singolare e tragico mondo; di cercar di capirne la sostanza intellettuale e umana, che è sì forte e autentica da angustiarlo, quasi umiliarlo, scoraggiarlo; di cercar di capire come questo gran lombardo, nel cui sangue c’è probabilmente qualcosa dell’antico ligure (ed ecco che qui s’accendono nuovi bagliori, perché io credo fermamente all’importanza degli antenati), possa via via chiarire a se stesso quella che è e deve essere la sua testimonianza. […]

E qui vorrei poter citare per intero le pagine sorprendenti che Leddi ha scritto sulla nascita di questi quadri (e che lo confermano scrittore davvero singolare), dove tra l’altro si legge: “Rappresentare il paesaggio milanese degli edifici pubblici, Architettura bianca e rossa: marmo e mattoni. Triennale, Angelicum. Arengario, Piazza degli Affari. Un carro da buoi – come attrezzo architettura – con molti dettagli. Carro di trionfo o carro di supplizio. In quello di Mora, il braciere che fuma, le tenaglie; pentirsi e pregare; buoni ladroni c’è sempre Gesù – e la parte antipatica la fa l’amministrazione… […]

Ho visto questo carro, poi l’ho pensato per me, mio padre e i miei fratelli, come se fossimo venuti a Milano con il nostro carro da buoi; poi, per dei fatti imponderabili, tutto si è stravolto; difatti nei sentimenti abbiamo cominciato a distruggerci”.

È un poema tragico e solenne, narrato con un amore e una partecipazione che non hanno mai impedito un’oggettivazione esatta, approfondita. Più curioso, in certo senso, l’altro quadro della grande vacca, ove la lezione seicentesca sembra frammentarsi nei particolari (la coda, le unghie) e in un che di stregato che potrebbe piacere a un surrealista. Ma in ogni caso sono quadri (e anche i particolari, gli studi) che non possono non convincere, anche per come l’intelligenza pittorica riesce ad equilibrare passato e presente, a far rivivere con moderno significato il fatto antico o agreste; per come coraggiosamente questi soggetti vengono riproposti, al di là di ogni intento rappresentativo o illustrativo.

(dalla Presentazione alla Galleria d’arte Radice, Lissone, 1974)

Giorgio Seveso

Il tema che Piero presenta è quello dell’angoscia di fronte ad un mondo che non ha più la nostra misura, che non ha più la nostra forma: è una angoscia da sempre al centro della sua pittura, da quando, nel dopoguerra degli anni cinquanta, Leddi giunse a Milano intrecciando le proprie radici contadine alle agitate e incalzanti circostanze culturali d’allora.

Le sue immagini sono a quel tempo dissolte, risentite, urtate dalla brutalità di un consolidamento urbano e borghese che nega o rovescia ogni valore autenticamente umano, che confonde ogni solidarietà possibile tra l’uomo e il suo mondo quotidiano. In una sorta di visione esistenziale (o esistenzialistica) del gesto pittorico disgregatore l’immagine è ri-pensata soltanto nella sfera del probabile, assediata com’è da atmosfere angoscianti, appunto, e inibitorie d’ogni messaggio più diretto, più esplicito.

Sono tracce addensate, sintesi fulminee, grumi d’emozioni ad alto timbro che lentamente poi, con il passare degli anni e delle stagioni, vengono organizzandosi, vengono impastandosi e distendendosi in schemi più meditati e più colti, più aderenti alle convenzionalità in divenire delle grandi lezioni figurative che Leddi riscopre. Dürer, il manierismo lombardo, il grande barocco diventano allora, per lui, un modo inedito e straordinario per ricollegarsi da un lato all’epicità greve e nebbiosa della sua campagna e della vita contadina e, dall’altro, per leggere diversamente ed assimilare capifila come Boccioni, come Giacometti, come Bacon.

L’angoscia è dovunque intorno a noi, nelle spianate di morti delle non-guerre ai quattro angoli del mondo così come nella violenza stritolante delle megacittà di cemento, nell’odio rutilante che separa l’uomo dall’uomo così come nella nube velenosa che, un certo mattino, si alza in Lombardia a segnare per sempre, come un simbolo, l’estrema malattia della nostra cultura. E se l’angoscia, nelle opere e nei cicli precedenti, si specchiava viso a viso con il fantasma della peste, con gli afrori delle fumigazioni e dei roghi, nelle urla arrocchite dei milanesi e dei preti intorno alla Colonna Infame, oggi, nelle immagini della Festa del Ticino, Leddi l’ha collocata in una allegoria ben più vicina, che dà corpo e sostanza ad un allarme irrimediabile, ad una inquietudine fatta di mostruose certezze. […]

In questo lavoro Leddi ha operato all’interno di una maturità e di una unità stilistiche quanto mai solide, rare, convincenti. C’è qui, forse, il momento più alto e risolto a tutt’oggi della sua pittura, che vi è giunta ad una confluenza estrema e febbrilmente perfetta tra forma e significato, tra pluralità scrosciante di temi, di spunti di intrecci molteplici e rigore fermissimo e convinto.

Il paesaggio è policentrico, spezzato da punti di fuga contrastanti, inquieti, agitati da ambigue lontananze. Gli animali muoiono, uccisi dal veleno tra gli oggetti abbandonati dagli abitanti. C’è un’aria di fuga, d’esodo precipitoso: un clima (che è clima mentale, proiezione di poesia), di dissoluzione, di tremante precarietà.

Sulla spianata i personaggi, infatti, sono fantasmi di cenere, ombre incarnate di esauste illusioni mentre lontane bandiere segnalano un’ultima, impossibile festa. Le madri non hanno più volto, né respiro, né gesti di vita: solo le mani aperte ad un’inutile disperata difesa dei figli.

Alle immagini della tragedia si aggiungono quelle del sogno e del simbolo, le autobiografie, le memorie, gli infranti tasselli della coscienza. Un fanciullo tenta ancora l’improbabile volo di un aquilone; qualcuno suona, medita, lavora, gioca. […] Dunque un intreccio complesso, folto di allusioni, di emblemi indefiniti, di iperboli figurali. Un intreccio in cui confluisce una fervida volontà d’approfondimenti poetici e strutturali ed in cui Piero coglie e suggerisce frammenti abbaglianti di verità sotterranee e universali, rivelando lentamente lo spalancato abisso di fragilità e d’allarme che si cela sotto la pelle d’ogni nostra certezza. Un intreccio, insomma, in cui la vicenda contemporanea dell’uomo è indagata in totale compromissione di sentimenti e di giudizio; in cui non c’è distanza (se non di vera, alta poesia) tra pittura e vita.

(dalla Presentazione alla Galleria Spazio Immagine, Milano, 1979)

Elvira Cassa Salvi

La personale allestita in questi giorni […] ci pone in presenza di uno dei pittori più intensi e autentici su cui possa contare oggi – e non solo in Italia – il bisogno umano di conoscersi, di confrontarsi, di comunicare. Quella sua misuratissima tendenza a tradurre l’ossatura del fisico animale in strutture che vivono di un complesso, intricatissimo rapporto d’analogia e di contrasto al tempo stesso con le strutture meccaniche, ha trovato una soluzione di rara intensità e chiarezza formale.

Questa ossatura – in senso letterale, perché gli occhi di Leddi scrutano il mondo con la penetrante aggressività di un apparecchio radiologico – questa ossatura, dicevamo, affiora con le sue aggressive tensioni da un tessuto cromatico complesso e contraddetto, che assimila Leddi nella diffusa temperie del drammatico, autentico, disarmato manierismo di questi anni; una declinazione più riflessiva, più coinvolta della sensibilità e dell’angoscia espressionistica, che, come fiume incandescente è sceso fino a noi attraverso le selve, le rocce, i deserti del secolo. […]

E nel colore si son depositati e si depositano gli umori distillati in una esperienza di vita astratta e prigioniera, lusingata e ferita dalla città, dal luogo che ti toglie dalla solitudine agreste e ti restituisce alla più struggente e assurda solitudine urbana; ti toglie dall’angoscia di una povertà originaria e ti restituisce alla povertà riprodotta dalla gara dei consumi cittadini; ti sottrae alla violenza di un mondo primitivo e ti sottopone alla insostenibile prova di una miriade di raffinatissime violenze, dissimulate e disseminate lungo la catena delle ore, dei giorni.

Ma non si pensi ormai ad un rapporto forma-colore tuttora difficile e segnato da motivi di ostilità e di eterogeneità. Il lessico espressivo di Leddi asseconda il gioco tonale, proprio come la calligrafia dei manieristi cinquecenteschi ubbidisce al loro estro cromatico. Il disegno s’è sciolto dai nodi d’una realtà scarnita, per non dire scarnificata, e senza perdere l’incisività, il nerbo plastico ch’era suo, s’è arreso alla lusinga del colore e dei suoi veleni. Un disegno avvelenato, esasperato, teso nelle movenze di una musicalità tenerissima e straziante, traccia un ordito e una trama pieni di malizie e di provocazioni subito raccolte dal colore.

L’opera centrale della mostra s’intitola Festa sul Ticino. Il pensiero corre a cose diversissime, nelle quali forse i rispettivi autori vollero dire, in lingua loro, cose non troppo diverse da quelle affrontate da Leddi. Si pensa alla Spiaggia di Guttuso; che a suo tempo e a sua volta aveva fatto pensare alla Grande Jatte di Seurat. Pittura davvero molto diversa; e tuttavia pittura comunque manieristica, visto che ogni tempo ha il suo manierismo; e le cose dette certo sono diverse, ma stanno comunque con il loro tempo in un rapporto analogo.

(Giornale di Brescia, 29 ottobre 1980)