Autobiografia al paese. La città

Testi di Mario De Micheli, Francesco De Bartolomeis, Raffaele De Grada, Armando Plebe, Antonello Trombadori, Pierangelo Soldini, Luigi Cavallo

Mario De Micheli

Un linguaggio preciso, dunque, definito, aderente: ecco il linguaggio che Leddi sta elaborando nella sua fatica d’artista. Niente fumo negli occhi, niente sofismi formali, ma un’indagine attenta, vigilata, sensibile del proprio discorso. C’è in questo giovane artista un pudore esemplare, quasi una reticenza, quasi una timidezza. Ma all’interno di questa sua attitudine, c’è anche un’ostinata volontà, quella volontà accanita che distingue l’artista dai divulgatori del gusto e della moda.

Leddi in fondo è un pittore autobiografico: è venuto in città dalla campagna e questo tema dell’incontro tra due mondi così diversi lo interessa profondamente per tutte le emozioni che in lui ha suscitato e per la storia di altri uomini che, simili a lui, hanno fatto e fanno questa strada.

Giunto da Tortona a Milano, egli rivive in sé il senso di un esodo tipico dei nostri giorni, e di ciò v’è una traccia nei suoi fogli e nelle sue tele, con quanto di poetico, di nostalgico, di inquieto e di spietato anche può nascere in una vicenda come questa.

Guardando i quadri e i disegni di Leddi ci si accorge dei vari motivi che guidano la sua ricerca espressiva. Talvolta il segno si fa asciutto, secco, quasi risentito; talaltra invece morbido; in un quadro la pennellata acquista un accento espressionista, in un altro si rivela cauta, misurata. Leddi sta filtrando i propri sentimenti, li sta mettendo alla prova. E questo fervore, questo fitto interrogarsi, è la garanzia del suo impegno, della sua passione per una pittura di cui l’uomo sia misura e sostanza.

(dalla Presentazione alla Galleria Alberti, Brescia, 1959)

Francesco De Bartolomeis

Leddi non cade nel luogo comune dell’alienazione né propone una consapevolezza da spettatore. Si salva dalla resa alla macchina e ai “mass media” attraverso la rappresentazione di una nuova organicità – quasi nuova fisiologia – che include gli uni e l’altra come relazioni umane e modi di vita rispetto a cui non abbiamo scelta. In particolare la macchina non si limita a essere un elemento figurale obiettivo o una caratteristica dell’ambiente esterno, perché piuttosto è una situazione complessiva che, attraverso una nuova percezione vissuta dello spazio, del tempo e delle forme, condiziona l’esperienza.

Possiamo parlare di una sorta di fisiologismo pittorico, sempre che si comprenda che questa penetrazione nell’interno ha valore per una definizione espressiva dello spazio, per la determinazione di un dinamismo, al quale è indispensabile appunto la tensione interno-esterno. Perciò non si tratta di un realismo (crudo, per giunta) che abbia ampliato il suo orizzonte includendovi quello che dell’“oggetto chiuso” non si vede. Anche il termine radiografia non è idoneo, perché può far pensare a una semplice operazione materiale.

Come per i futuristi, “lo spettatore sarà posto al centro del quadro”. Leddi condivide la necessità di distruggere l’atteggiamento contemplativo, lo star fuori, l’immagine senza tempo. Egli rappresenta, non narrativamente, un fatto; gli è indispensabile viverci dentro. Poiché sono fatti-eventi, cioè accade qualcosa, nella rappresentazione entra la dimensione temporale a caratterizzare la dinamizzazione dello spazio. E allora si tratta di spazio “vero”, vissuto. […]

Perciò la sua ricerca si spinge al di là del realismo di cui conosce gli equivoci. Egli vuole situare eventi organici nello spazio, arrivare a strutture essenziali di figure, di rapporti, di movimenti. Mostra apertamente quanta fatica gli costi il guardarsi da due pericoli: quello del riferimento naturalistico e narrativo assorbito dalla contingenza e quello di un’astrazione che, per assicurarsi l’essenziale, approdi a risultati poveri o semplicistici.

Mi pare che la ricca grafia, e talora perfino il “garbuglio”, una coraggiosa e accentuata coloritura, una figurazione che si impone con una inquietante presenza psicologica siano i fatti espressivi attraverso cui Leddi va maturando un suo stile.

(dalla Presentazione alla Galleria L’Indiano, Milano, 1963)

Raffaele De Grada

Leddi ha portato con sé dalla provincia – egli è del paese di Pellizza, presso Tortona – la purezza di un ideale e di un costume che stenta ad acclimatarsi nella giungla milanese.

Questa impressione che ebbi di lui quando lo conobbi non era semplicemente psicologica. Ritrovavo nel suo animo ciò che avevo intravisto nei suoi quadri e nei disegni. Avevo sentito che quei quadri tutt’altro che facili e “popolari” di lui, pur entusiasta nipotino di Pellizza, non avevano nulla a che fare con l’accademia astrattista e che si collegavano semmai alle radici della rivolta antinovecentista, che con l’astrattismo “storico” non ebbe nessun rapporto.

[…] Guardando uno dei quadri attuali di Leddi noi avvertiamo prima di tutto un senso di nobiltà, un distacco dalle forme comuni della pittura sia populista sia informale sia banalmente surreale. Questa nobiltà di forme in un’approssimazione coloristica quanto mai sorvegliata, assolutamente diversa dalle più facili suggestioni del naturalismo ma tanto pittorica da non cadere mai nell’irrazionale senza scopo, dà subito l’impressione di andare oltre alle più recenti soluzioni. Per ritrovare una simile dignità di composizione bisogna ritornare ai simboli del cubismo orfico e del futurismo di Boccioni, a quella virtù di ricerca, insofferente delle improvvisazioni.

Si sente che Leddi teme spaventosamente di cadere nel descrittivo. La sua polemica antiottocentesca si estende a tutte le forme appena appena descrittive che possono esserci nella contemporaneità. I quadri di Leddi sono così volontariamente fuori da questa tradizione che sembrano cartoni per una pittura murale simbolica. Come quadri di cavalletto, rompono gli schemi abituali. […] Questa diversità è contrassegnata dal fatto che Leddi non crede al quadro di getto, più o meno “dipinto” (da Pirandello a Dubuffet), ma ha fede nell’opera “grande” secondo l’antica tradizione delle arti liberali, con tutti i passaggi intermedi tra l’artigianato e la pittura.[…]

In questo senso Leddi è il tipico pittore che rivela la crisi contemporanea, crisi che investe prima di tutto gli intellettuali, che sono stanchi di rappresentare i valori tradizionali della vita borghese e non sentono tuttavia affacciarsi con la necessaria forza lirica valori nuovi, di una classe nuova. Leddi, per esempio, ha voltato le spalle completamente al paesaggio di natura, per quanto egli si compiaccia di essere erede di Pellizza, che fu un grande paesista lirico. A Leddi avviene quanto si può constatare in un regista come Antonioni: a furia di andare a cercare i significati più riposti di ogni minimo gesto, di ogni situazione possibile, si rischia di annullare il contenuto stesso e spalancare l’abisso del vuoto. […]

Ne deriva una specie di mitologia simbolica del reale quotidiano, qualche cosa di simile a ciò che fu in altri tempi il mondo di Holman-Hunt o di Burne-Jones, di Redon e di Rops, tutti artisti di crisi, tra il mondo sereno dell’Ottocento e un nuovo secolo di cui non si avverte che la parte interrogativa.

[…] Lo so che le cose non stanno poi così, che i valori esistono e sono da affermare. Ma come impedire che ognuno riparta da zero? Senza fare appello a retoriche che apparirebbero negative e scontate. Leddi è uno degli artisti più interessanti di questo piccolo gruppo. La sua strada può diventare indicativa anche per gli altri.

(dalla Presentazione alla Galleria della Sala di cultura, Comune di Modena, 1964)

Armando Plebe

La pittura di Leddi occupa una sua posizione originale, che si può intendere non tanto riconnettendola a una delle molte tendenze della pittura d’oggi, quanto riconoscendo la particolare e feconda prospettiva da cui essa si pone, la quale apre una via ricca di nuove suggestioni.

Alle sue radici stanno complesse esperienze culturali e di vita; però, più di altre, servono forse a individuarla tre sue componenti essenziali: in primo luogo l’esperienza di un tipo di psicanalisi diverso dalle solite ossessioni intimistiche e introvertite, bensì volta a comprendere nella loro sana, esplosiva fecondità i fatti primordiali della vita dell’uomo; in secondo luogo l’attenzione appassionata per la realtà fisica e naturalistica delle cose, la quale conferisce all’astratta simbologia psicanalitica una concretezza nuova (per cui se un nodo di tendini deve simboleggiare la tensione vitale, questo nodo diventa subito, in Leddi, un reale, quasi palpabile groviglio di fibre e arterie); in terzo luogo, infine, la trasposizione di questa psicanalisi concretizzata e vitalizzata nell’attualità del nostro mondo di macchine: per cui i simboli della vita organica sono visti sempre permeati da simboli e oggetti della meccanizzazione odierna, in particolare del mondo della motorizzazione, che travolge oggi la vita dell’uomo moderno.

Di particolare rilievo sono le tempere dedicate al tema della nascita. La decantazione del tradizionalissimo tema della maternità, e della retorica che su di esso si era impiantata, viene ottenuta da Leddi attraverso la triplice sua tematica sopra descritta, ottenendo immagini insieme intellettualistiche e vitalistiche, che richiamano, attraverso la fredda trasparenza di uno sguardo razionale, il caotico ed embrionale germinare della vita.

[…] Anche nelle altre pitture di Leddi compaiono, variamente congiunti, questi stessi elementi: così nel pastello Famiglia in auto sono visibili, attraverso un contorto gioco di linee, una donna in auto e una donna con neonato in braccio. E si veda, nel gruppo delle tempere grasse su tela, le Teste in sorpasso, che riprendono i temi dell’automobilismo. In queste ultime tempere è notevole l’impiego del colore ottenuto attraverso tecniche antiche, che danno il risultato di un colore scarno, pulito, timbrico.

E ricorderò infine, a tal proposito, come buona parte dei felici risultati ottenuti da Leddi siano dovuti anche alla sua lunga consuetudine di studio della pittura lombarda, in particolare della scuola leonardesca, che ha permesso alla prorompente modernità di Leddi d’impiantarsi su di una solida base di cultura pittorica.

(dalla Presentazione alla Galleria d’arte I Balestrari, Roma 1964)

Antonello Trombadori

Piero Leddi […] si è formato come pittore nel clima milanese del dopoguerra. La sua stessa età, pur non impedendogli di rimanere avvinto intellettualmente e moralmente dalla problematica del realismo quale si affermò nel nostro paese nel quadro dello sviluppo umano e ideale della rivoluzione antifascista, non gli consentì tuttavia di prendere parte al movimento realista se non in forma critica, e in un certo senso col vantaggio di trovarsi già fuori dall’area di quelli che del movimento realista furono prima le illusioni e poi gli errori. Rimane però il fatto che Leddi, lungi dal voltar bruscamente pagina, come accadde a coloro per i quali il realismo stesso era stato una formula intercambiabile anziché un momento della propria concezione del mondo, preferì una lunga isolata ricerca per tentare di approfondire, a suo modo, talune questioni espressive di rapporto con la realtà e di tener fede, a suo modo, al principio secondo il quale non può esservi all’epoca nostra prodotto artistico veramente rinnovatore che non sia il risultato d’un impegno della ragione, oltre che del sentimento e dell’inclinazione poetica.

È tuttavia interessante osservare come per Leddi la questione di fondo fu per lunghi anni non tanto quella dei “contenuti” quanto quella delle “forme espressive”. Tale questione gli si pose, però, in modo così ossessivo da diventare essa stessa il “contenuto” della sua ricerca. Non è stato infatti per Leddi puro e semplice lavorio d’aggiornamento e di “revival” avanguardistico l’interrogare tutte le forme possibili, sempre col maturato proposito di mettersi in grado di raccontare in pittura un fatto senza la mortificante ipoteca del descrittivismo e del gratuito simbolismo.

È così che Leddi si è trovato, a un certo punto del suo lavoro, nel fitto d’un groviglio plastico, libero, tuttavia, da ogni grado di parentela col groviglio e col magma dell’informale. Il suo groviglio era di ordine narrativo-realistico. Si trattava di saperlo sbrogliare per meglio scoprirne la intera logica figurativa, per renderlo idoneo ai fini scopertamente comunicativi che il pittore si proponeva.

“Per ciò che si riferisce agli intricati procedimenti delle scelte – mi ha scritto poco tempo fa Piero Leddi – posso dirti che rispetto al lavoro precedente mi sono prefissato di rappresentare più ‘plasticamente’: di rendere maggiormente il volume degli oggetti, stabilendo in teoria la destinazione delle luci e delle ombre, decidendo i valori dei colori ‘a freddo’: il rosso, il verde come valori di semitono, i gialli, gli azzurri come valori di chiari, i blu ed i porpora come valori scuri. Ho immaginato i primi piani per lo più in controluce per reagire ai telai, piatti e atmosferici, dei lavori precedenti”. Tale è stato il lavoro di Leddi da almeno due anni a questa parte ed è in un certo senso commovente il fatto che nella misura in cui Leddi si è interamente e consapevolmente impadronito di quel suo modo espressivo a metà allusivo e analogico, a metà freddamente rappresentativo delle apparenze visuali delle cose, nuovi contenuti poetici siano quasi spontaneamente affiorati dalla sua memoria, non tanto come autobiografia quanto come biografia e critica e canto di una più vasta condizione umana. Leddi è della terra di Pellizza da Volpedo, l’uomo che dipinse il Quarto Stato, che si uccise e che fu uno dei talenti pittorici d’avanguardia alle immediate spalle di Previati e di Boccioni. Leddi ha studiato a fondo Pellizza e certi suoi contrasti di luci fredde azzurrine col caldo dell’oro ricordano i primi coraggiosi accenni divisionisti del disperato maestro piemontese. Ma ben più che sul terreno delle forme Leddi appare legato alla memoria di Pellizza sul terreno del rapporto che questi ebbe con la vita: di canto dei suoi valori, di amara consapevolezza delle sue preclusioni e dei suoi traumi.

(dalla Presentazione alla Galleria La Nuova Pesa, Roma 1966)

Pierangelo Soldini

Viene per ogni artista, ed è venuto anche per Piero Leddi, il momento di un dialogo più aperto: il quale non sempre, ma nella maggior parte dei casi, coincide con la maturità sia degli anni che dell’esperienza. Questo momento, di importanza fondamentale nella vita dell’artista, il quale ne è perfettamente conscio, consiste nella ricerca di un maggiore spazio figurativo e di una maggiore libertà espressiva. Si tratta di una carica – per chi ovviamente, come appunto avviene per Piero Leddi, non sia andato vagando di anno in anno dietro alle varie mode, ma abbia dato vita a un mondo suo, suggerendo ad altri idee e soluzioni – a lungo contenuta e repressa, sia per timore sia per pudore (due sentimenti propri della stagione delle ricerche) che ha bisogno di sprigionarsi, di espandersi e, in alcuni casi, persino di esplodere. Nel caso particolare di Piero Leddi questa esigenza non dico di rottura – ché di rado ho incontrato un pittore coerente e ostinato quanto lui nella ricerca e nell’approfondimento – ma di apertura, è assai significativa, perché chi conosce Leddi sa quale accumulo segreto di calore umano egli porti dentro di sé. Un calore umano che, un po’ per l’asperità della natura stessa dell’artista, un po’ per paura di certi abbandoni, e un po’ a causa di contraddizioni, si è manifestato sino a ora sotto forma di una sottile ma non mai compiaciuta violenza dell’oggetto. Amare l’oggetto (nel caso specifico l’uomo, la bestia, l’albero: l’uomo-mucca e l’albero-uomo) ha significato insomma per lui non solo sviscerarne ogni intima fibra – e la curiosità in questo caso è sempre un fatto doloroso se non crudele – ma talvolta bistrattarlo, il che è proprio di chi teme a quali irrimediabili guasti si possa andare incontro con un incontrollato abbandono (oppure con un incontrollato entusiasmo). Ma ora Piero Leddi ha nuovi mezzi per difendersi da questo pericolo e nello stesso tempo per non ritrarsi di fronte al bisogno di comunicare: l’ironia, se non addirittura, quando occorra, il sarcasmo. L’uomo con tutte le sue sofferenze, con tutte le sue umiliazioni – l’esperienza sarda è stata molto importante per l’artista – con tutta la sua scorza terrena è sempre, per Leddi, al centro del mondo: ma Leddi non cadrà mai nell’errore di una strenua e incontrollata apologia, conoscendone anche i lati meno eccelsi, o addirittura la cupa miseria morale, e non rinunciando perciò a quella che oggi con una espressione abusata viene definita la denuncia. Una forma d’affetto anche questa? Sicuramente. Una forma d’affetto, più bisognevole di solidarietà anche per uscire dal cerchio chiuso di una esasperata solitudine, ma certa.

(dalla Presentazione alla Galleria del Minotauro, Brescia, 1967)

Luigi Cavallo

La proporzione incognita che si può cogliere nella sequenza cronologica dell’opera di Piero Leddi, e che inizialmente disorienta, deriva dalla posizione particolare in cui si svolge il suo lavoro. È una zona posta al limite fra la struttura e il disfacimento, fra la mimesi formale e la citazione mentale, dove spesso non è possibile sondare analiticamente quanto concorrano le emozioni e l’istinto da una parte o l’impegno costruttivo dall’altra, nel risolvimento del quadro. S’è avanzata l’ipotesi di una possibilità di analisi del valore reale (non neofigurativo) delle immagini proposte da Leddi, quindi del loro peso e del loro volume coerente e sociale, da rapportarsi in modo distinto da ciò che evidentemente procede verso l’astratto, poiché è su questo cardine di contrasti e di negazioni che finora s’è compiuto il discorso di Leddi.

Senza arrivare all’ironia o alla crudeltà – giungendo tuttavia vicino a simili atteggiamenti nel confronto del materiale su cui operava –, Leddi è sembrato via via mandare a male ciò che gli suggeriva di troppo materiale il suo rapporto sulle cose, trascurando in modo crescente la cultura figurativa, a rigore di un nuovo ordine da lui intuito proprio nella zona liminare di cui si diceva.

[…]

L’attenzione verso il movimento lo portava a un disegno nervoso, in qualche occasione sfuggente, e la superficie dei quadri veniva affiorando in modo travagliato, o rimaneva embrione l’idea del pittore distratto in una complessa sequenza di termini da tener presenti. Le opere più recenti rivelano un nuovo disporsi degli interessi di Leddi, più attento non solo alla risoluzione della figura, ma anche dello spazio in cui essa agisce e si evolve. Dopo l’aderenza totale alla vita, comunque si manifesti e in se stessa intesa, il pittore dà luogo a una fase che si potrebbe dire contemplativa; riguarda un vecchio problema estetico dell’interno-esterno, ma rinnovandolo nelle sue varie accezioni di rapporto fra oggetto e ambiente, fra creatore, oggetto e fruitore dell’opera.

Leddi non si ferma a considerare solo il motivo superficiale di un atteggiamento effettivamente mutato fra l’artista e il mondo, ma ne scava le ragioni in profondità, cercando il “come”, sul piano formale, di questa mutazione. Giunge, così, a delle proposte di linguaggio che mantengono costanti alcune basi di intuizione lirica, e si manifestano in una sempre maggiore intensità evocativa.

Entro questo schema di ricerca sono ubicate le sezioni notomizzate delle sue costruzioni umane, dell’uomo organizzato nello spazio in una moderna possibilità di sopravvivenza: come involucro svuotato di fronte a quelle incombenze, a quei drammi, si vorrebbe dire, che non sono più esterni ma, nel travaglio del tempo, sono divenuti le sue fibre costituenti.

Nelle tempere grigie l’individuo è prodotto in una stasi che non si sa fino a che punto sia sonno e fino a che punto “morte”: qui vi è la nuova disposizione di Leddi che vuol cogliere l’equilibrio definitivo delle forme, descritte non più nel fuggevole, fluttuante progresso esistenziale, ma nel loro valore plastico, nel loro peso.

L’azione, la condizione esterna sembra ormai completamente esperita nel lavoro precedente, e nella nuova testimonianza figurativa, offerta con la solita proporzionalità pittorica, se non col medesimo impeto, si apre un nuovo rispetto per l’impianto spaziale di quei corpi che rimangono al centro della sua narrazione.

(dalla Presentazione alla Galleria Cantini, Piombino, 1967)