Emigranti, Sinopie e altre Immagini

Testi di Mauro Corradini, Aurora Scotti Tosini, Raffaele De Grada, Francesca Pensa

Mauro Corradini

Ascrivibile per storia e vicenda poetica alla pittura verosimile, Leddi con difficoltà può essere “co-stretto” all’interno dei raggruppamenti e delle poetiche iconografiche che hanno animato il secondo dopoguerra, dal neorealismo, al realismo esistenziale, alla nuova figurazione e successivamente all’iperrealismo; poetiche da cui si è sempre tenuto lontano, per un diverso assunto che trova forse una sua giustificazione […] un po’ per desiderio di solitudine, un po’ perché diverso era il fine: Leddi cerca il significato individuale della storia, l’immagine simbolica realizzata con un segno secco e deciso, per autoriconoscersi. […]

In questa rigorosa quanto isolata posizione del pittore, ascrivibile alla cultura della verosimiglianza, anche la questione dello stile esce dai consueti ambiti del neorealismo; Leddi non può che rifiutare il tipico, come valore fondante dell’immagine, poiché dal tipico discende (può discendere) l’iterazione, come conseguenza inevitabile: «Lo stile ˗ afferma il pittore alla fine del decennio Sessanta ˗ viene oggi scambiato per la ripetizione di dati elementi mnemonici per aiutare la pigrizia ottica». Pigrizia ottica che per l’artista coincide con le forme inerti del pensiero. In questa sua anomalia, il costo di una solitudine intellettuale ed espressiva, che rende appartato e singolare il pittore nel panorama lombardo del secondo dopoguerra, cui per altro ha partecipato in forme alte. […] Leddi parte dal disegno, che diviene sotterraneo e palese filo conduttore di un’indagine su un’età storica, con le implicazioni che si sono indicate in apertura. Nonostante la straordinaria bravura, il disegno di Leddi non è mai descrittivo; è uno scavo. La matita è un bisturi non per trovare il cancro, ma la verità dell’animo, ad un tempo legame tra sentimento e ragione, tra razionale e irrazionale, per dirla con una dicotomia che meglio si presta a rendere esplicita l’intenzione espressiva dell’artista. […]

Nell’elaborazione grafica la tensione sperimentale, il bisogno di dare forza e voce al puro segno, la necessità di trascrivere nella lastra e con la lastra i ritmi gestuali della mano che agisce sul foglio, le macchie, le bruciature, i corrugamenti, divengono spesso protagonisti dell’opera: si prenda il tema delle teste […]. La testa di Leddi assume il valore inquieto di una riflessione non formale sull’uomo; la testa si contrae, emerge con forza dalle tracce mute dello sfondo, diviene elemento che prorompe nello spazio del foglio, come se lacerasse la razionalità della composizione, trattenuta dagli ambiti tesi delle strutture di sfondo, spesso coinvolte linguisticamente nella bidimensionale e volutamente piatta figura dei monocromi. […]

Due altri temi si susseguono con regolarità nell’opera incisa di Leddi, con una più accentuata continuità in certi momenti e una complessiva (sostanziale) costanza nell’apparire: si tratta del tema della caduta (Fausto e Serse Coppi) e della maternità. […]

Leddi riconduce la caduta inevitabilmente alla sua misura: da un lato la sua storia, la sua memoria, la conoscenza di una fragilità che è carattere degli abitanti della sua ristretta valle del Curone; dall’altro la cultura di appartenenza, quella popolare non “della gente”, che è la stessa che ha esplorato nelle numerose e alte pagine su Milano e sulla Grande Rivoluzione; dall’altro ancora, la lezione stilistica di una coerenza interiore, che non abbisogna di stilemi e formule ripetute […].

Concetti non dissimili si incontrano nella “maternità”, forse il tema più ricorrente in assoluto nella sua vicenda grafica; le prime maternità cominciano ad apparire ancora all’inizio degli anni Sessanta e praticamente ritornano costantemente nella sua riflessione. La maternità è il tema attraverso cui in forme dirette Leddi esplora gli umani sentimenti, il senso di appartenenza alla terra d’origine, e recupera la cultura visiva che ha osservato con occhio attento e curioso. E colto.

È forse il soggetto in cui le citazioni e le implicazioni espressive emergono con maggior vigore: nella stessa figura di una giovanile maternità viene al lettore il rinvio al disegno leonardesco, per esempio, che si coniuga con il bisogno di radici che fa apparire sulla lastra, con un segno rigoroso e classico, in questo caso, figure di memoria e di terra, come quella del vitello.

È il tema della dolcezza e del sentimento; per questo, anche la luce, il rapporto del bianco con il nero, carattere proprio dell’incisione, assume la rilevanza che diviene in seguito categoria in tutto il corpus grafico dell’artista: la luce traduce in simboli le presenze, dà forma all’informe, scopre il segno nella sua complessità di ricerca significante. La luce fa risaltare l’uso continuo di tratti diversi, di macchie e acidature a volte, di soffuse dimensioni materiche che l’artista svela attraverso l’acquatinta. In definitiva è la luce ad esaltare il ruolo decisivo della sperimentalità di un segno che non tende all’iterazione, ma all’invenzione. […]

Tutta la gamma di differenze e sfumature, dalle durezze di un segno che contorna e definisce, alla dolcezza di uno sfumato che sembra intenerire la figura (specialmente) della madre, tutta la varietà dei segni che Leddi utilizza sembra esaltarsi attraverso gli equilibri di luce: Leddi nega la classicità, non la misura. Perché attraverso la luce, l’incisore sembra ritmare la sua opera calcografica in un ricorso costante alla misura dell’equilibrio, che giustifica le forme e dà loro il senso contrapposto e rilevabile della ragione e del sentimento.

(da Piero Leddi. Opera incisa 1956-2002, Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2003)

Aurora Scotti Tosini

Delle migrazioni continuate per buona parte del XX secolo, Piero Leddi, nato a San Sebastiano Curone e a sua volta “emigrato in città” per educarsi e dedicarsi alla pittura – come un altro grandissimo figlio di San Sebastiano Curone, quel Felice Giani che fu rivoluzionario protagonista della pittura italiana tra Sette e Ottocento – conserva una vivida memoria, tanto da farne oggetto di suggestiva rielaborazione pittorica.

La formazione di Leddi è stata quella di un pittore attento al vero, non nella accezione ottocentesca, ma in quella criticamente esistenziale che sostanziava le ricerche artistiche milanesi della figurazione nel secondo dopoguerra […].

Per sua scelta peculiare Leddi ha poi scavato spesso nella storia, alla ricerca degli snodi critici capaci di evidenziare il rapporto fra consapevolezza soggettiva e coralità d’azione di un popolo inteso come protagonista in costante movimento, puntando su eventi o momenti in cui la storia ha imposto l’abbandono di lavori e mestieri a lungo coltivati, di luoghi (come il grande mulino) e di gesti simbolo di una peculiare identità, per porre obiettivi e ritmi nuovi alla vita e al tempo del lavoro; e questo è avvenuto non senza risvolti costantemente autobiografici, in una ricorrente trasfigurazione dei fatti, dei luoghi e dei momenti dell’esperienza di vita contadina che aveva caratterizzato la sua prima giovinezza nella Val Curone e che andava velocemente perdendo di competitività e quindi, come si usa dire, di senso. […]

E così Leddi ha fatto nei confronti di Giuseppe Pellizza […], realizzando un complesso ciclo pittorico sulle migrazioni, che comprende incisivi, sofferti o disincantati ritratti individuali ma anche una serie di tele o fogli di grande dimensione, simili a dei veri e propri “affreschi”, a volte quasi monocromatici – ad un tempo monumentali ed estremamente emozionanti nella vastità dell’impianto spaziale – che sviluppano il tema dell’emigrazione in una sequenza di quadri temporali.

Si parte dalla evocazione delle penombre dei colli e dei monti attorno alla Val Curone, e dalla festa d’addio con cui gli emigranti venivano salutati nelle sedi delle Società di Mutuo Soccorso, per giungere alla catena dell’Appennino che blocca il passo verso la Liguria e che, una volta oltrepassata, si apre al porto di Genova, brulicante di vitalità nella sua stessa stratificata articolazione e struttura. Nella trasfigurazione di Piero Leddi i contadini piemontesi arrivano a vedere il mare sbucando con le loro teste al di sopra dei monti, ma nello stesso tempo il mare, il porto e la città che si presentano allo sguardo sono quelli che si hanno, saldando la veduta dall’alto con quella che si delinea a chi si allontana prendendo la via del mare e guarda la terra per un ultimo saluto. Una visione multipla e complessa che, ancora una volta, sembra rimeditare o, comunque, giungere ad esiti confrontabili con quella che storicamente fu la più affascinante e simbolica rappresentazione della grandezza e della ricchezza della Repubblica di Genova, raffigurata nel grande quadrone con la Madonna regina della città prodotto nella bottega di Domenico Fiasella attorno al 1638 per commissione dei genovesi migrati in Sicilia.

Ma accanto alla storia, anche il mito entra nella elaborazione di Leddi caricandosi di sfumature sottilmente simboliche: quelle partenze sembrano evocare anche una favola ancora più antica, e un mito legato alla terra. La sottrazione di forza-lavoro alla valle diventa una specie di ratto d’Europa, e la stessa ansa del porto, coniugandosi all’energia taurina dell’inarcato dorso dell’animale, sembra andar oltre i propri limiti, dilatandosi verso il nuovo, verso i luoghi di quell’America ignota – i cui nomi gli emigranti neppure sapevano esattamente pronunciare, come ben appare in alcuni dei titoli scelti da Leddi per i propri disegni dopo aver rimeditato sulle testimonianze di emigrati liguri pubblicate da Antonio Gibelli – ma che erano comunque obiettivi carichi di speranza di un futuro migliore.

(dalla Presentazione alla Società Operaia, Volpedo, 2006)

Raffaele De Grada

Piero Leddi, artista che stimo da molti anni, di cui ho scritto varie volte e che ho sempre definito un pittore di storia, ora in un momento così difficile fa rinascere un personaggio popolare. Quest’opera dimostra che abbiamo tutti un piccolo Bertoldo da tirare fuori che ci diverte tanto. Nobilitato nel bronzo, seduto di traverso, come nelle incisioni del Mattioli dove si presenta al re con un crivello in capo porgendo una torta. Il Bertoldo seduto con il suo cappelluccio sull’asino, una visione quasi da Presepe dell’Alto Reno, che arriva da noi con l’aura di Marino Marini. […]

Cosa dire di un artista importante? Leddi con il suo studio di via Canonica, dove ha lavorato tutta la vita, si estranea ora con un’opera che lo lega al territorio dove è nato, una festa che impegna gli abitanti dei più vari paesi. Nei giorni in cui si pensa con malinconia ai fast food, Bertoldo ci ricorda i pasti frugali contadini, consumati nella stalla, la sera, quando si parlava con il fiato delle mucche come calorifero. Quest’opera fa riflettere: quando sembra che tutto dorma, Bertoldo ci insegna tanto. La vita è anche gioco.

Numerosi gli schizzi preparatori, dalle forme in controluce come le ombre cinesi alle visioni più tipiche, proprie di Leddi. Questa è una prima scultura, ma è come se ce ne fossero altre, tante. È normale, vero talento degli artisti. L’asino con l’aria mite in realtà è problematico, va solo quando vuole lui e Bertoldo lo sa, ma ha tempo e pazienza. […] Anche Sancho con il suo ciuco ci ricorda Bertoldo. Tante sono le immagini del nostro amico in Europa. E molto rappresentato in Italia meridionale è l’asinello con il suo contadino in ceramica, sempre con un cappelluccio in testa.

Leddi ha dipinto di frequente gli animali come la Vacca che si volta del 1959, carbone e tempera, il Torello del 1980, oppure Uccello africano del 1992, tempera e matita, che ricorda Sutherland e Pellizza.

Ma c’è anche l’amore per l’uomo come il Coppi chino sulla bicicletta, alle cui spalle sporge il fratello Serse, un Giano bifronte bonario che ho visto in una recente mostra a Tortona. Ora per incanto arriva il Bertoldo con il suo asinello dinoccolato da via Canonica, e si posa nella piazza dove giocano i bambini.

Nel 1964 ho scritto per una personale nella Galleria della Sala di cultura del Comune di Modena. Leddi in questi quarant’anni non ha deluso la mia attesa, sempre coerente. Il pittore di storia ora incomincia nobilmente la scultura, non lontano da San Sebastiano Curone.

(da Piero Leddi. Sculture. Omaggio a Bertoldo di Retorbido, per l’inaugurazione del monumento, Retorbido, 2009)

Francesca Pensa

Tra gli anni sessanta e settanta, Leddi affronta nuovi temi: la rappresentazione del corpo comincia a interessare la sua arte e le modalità espressive scelte per questo soggetto riflettono lo sviluppo del percorso creativo del maestro e la sua percezione, trasformata in immagine, dell’uomo moderno, immerso nel tempo e nello spazio della contemporaneità.

Scrive Leddi in riferimento a quel tempo: “Studio le tavole anatomiche di Vesalio, per reinterpretazioni libere del corpo umano”. […] Anche Leddi disseziona i corpi, ma l’uomo che emerge dalla sua ricerca sembra appartenere a un’altra specie, nata dalla temperie della modernità.

Le sue anatomie mostrano corpi smembrati, tagliati da differenti e spesso sovrapposti punti di vista, descritti da un chiaroscuro che inventa volumetrie fantastiche, illuminati da luci mentali più che ottiche; le posture sono condizionate da un movimento costante, evidenziato da linee continue, capaci di sottolineare una tensione dinamica che nella frequente rappresentazione della testa dimostra la sua natura interiore più che fisica.

È questo l’uomo della contemporaneità, non più organismo assoluto che in sé contiene la perfezione di un cosmo logico e razionale, ma piuttosto immagine parziale dell’accidentalità del singolo e della individualità di ciascuno, dentro un universo che ha perduto la certezza di una provvidenziale completezza ed è invece percepito nella sua instabile relatività. […]

Successivamente la pittura di Leddi, che non raramente si è posta in dialettico e impegnato raffronto con l’arte del nostro passato, si dirige verso tematiche ancora diverse, che indagano in varie opere la forma e l’idea della città, con particolare attenzione a Milano, fino al celebre ciclo ispirato alla Rivoluzione francese, sensibile espressione di un nuovo concetto di pittura civile, nel quale la memoria storica diviene antiretorica meditazione sul presente.

Il tema del corpo ritorna comunque anche in lavori più recenti, nei quali le linee aspre e veloci degli anni sessanta e settanta lasciano spazio a forme più riconoscibili ma sempre filtrate attraverso uno sguardo interiore, costantemente puntato sull’uomo abitatore della nostra contraddittoria contemporaneità.

(dalla Presentazione allo Spazio-Laboratorio Hajech-Liceo Artistico Statale di Brera, Milano, 2009)