Fausto Coppi

Testi di Piero Leddi, Antonello Trombadori, Duilio Morosini, Franco Loi, Nicoletta Colombo

Piero Leddi

Nel gennaio del 1960 muore Fausto Coppi. Provo un’emozione inaspettata. Eseguo alcuni disegni in memoria. […]

Nel 1966 tengo una personale alla Galleria La Nuova Pesa di Roma, con presentazione di Antonello Trombadori. Le opere esposte sono prevalentemente dedicate alla vita dei fratelli Coppi. […]

Gli appunti che avevo accumulato per rappresentarli si basavano sull’eliminazione della retorica giornalistica, con la consapevolezza di sapere bene, per ragioni di conterraneità, quali fossero stati gli squallori della loro vita da gladiatori. Tentavo di ricomporre il senso della loro fatica stravolta e disumana, immaginando ad esempio quello che potevano pensare, nelle allucinazioni e stordimenti delle canicole estive, sulle strade francesi, o subito dopo il giro d’Italia.

Gianni Brera vede Fausto con l’espressione di un pesce che beve plancton: bocca storta, semiaperta per asfissia.

Oppure, Fausto come il mito di Fetonte, che è un mito padano: cavallo-bici e Fausto, che cadono dal cielo.

Il duello Coppi-Bartali: rappresentabile in rotazioni di pedivelle e diagrammi di avanzamento, di un tempo astratto e meccanicistico.

Altri appunti scritti: testa di Fausto, dettagliata, schiena e manubrio, solo le sagome, insistere su gambe e pedivella (leva e rotazione).

(da Piero Leddi. Dipinti e disegni, Charta, Milano, 1994)

Antonello Trombadori

Le tele di Piero Leddi rivelano, a prima vista, un pittore esatto, armonioso, tutto proteso a verificare l’esito del rapporto fra disegno e colore, e certamente assai preoccupato di non lasciare nulla al caso, di essere ad ogni costo in par con l’immagine rispetto al modello nella fantasia. Ho usato non a caso la parola esito e non la parola effetto. Proprio perché di un eventuale effetto che fosse generosamente ma imprevedibilmente nato dall’azione pittorica nel suo farsi e non fosse corrispondente all’esito previsto, Leddi non saprebbe come appagarsi. Un pittore mentale, dunque. Il che non significa privo di emozioni e di abbandoni lirici. Al contrario: l’incentivo poetico di Leddi è, a mio avviso, essenzialmente lirico e di quel particolare lirismo che deriva dall’amore per la natura e per i sentimenti immersi nel paesaggio naturale.

[…] Nelle tele dedicate alla favola di Fausto Coppi Leddi ha certamente raggiunto nel modo più chiaro la comunicazione poetica dei suoi conflitti. Ha ritrovato nella favola di Fausto Coppi i motivi più profondi e dolenti della gentilezza e delle nobiltà umane ridotte in frantumi dall’urto brutale così con il pregiudizio come con le asperità dell’esistenza e della natura. Da quei frantumi di gentilezza e di nobiltà che Leddi ha saputo isolare nel paesaggio quasi come relitti d’un antico modello di bellezza un filo si sdipana al quale il pittore ci invita ad aggrapparci per uscire dal labirinto.

Sta in ciò la modernità e la validità dell’attuale pittura di Piero Leddi.

(dalla Presentazione alla Galleria L’Indiano, Milano, 1964)

Antonello Trombadori

“Ho dipinto in maggior parte delle ‘cadute’ per ciò che vuol dire ‘andare per terra’, ‘sbattere la testa per terra’, per ciò che ti casca addosso: un aratro, una bestia o una bicicletta (simboli). Non è per denuncia né perché so che se caschi difficilmente qualcuno ti tira su, ma è per raccontare senza distacco tutto il ‘rotolare’ che abbiamo fatto da un paese all’altro, da cinquant’anni, cambiando mestiere e adattandoci ai nuovi senza amore, come un destino ineluttabile. Ho tentato di raccontare la storia dei Coppi non come ‘favola’; andava bene la parola ‘gentilezza’ che tu avevi detto. Gentilezza di gente timida e buona, ridotta in frantumi per gioco. Sono convinto che corressero i Coppi per una fame vecchia che portavano nelle ossa di contadini decalcificati e per uscire da questa condizione. Quando è morto Fausto io ho pianto a Milano; ancora oggi mi commuovo a pensarlo e a vederlo nelle vecchie foto. Non che abbia mai pensato a lui come ‘eroe’; credo proprio che sia per una sorta di ‘gentilezza’ andata in frantumi, con la quale io identifico tutta quella gente degli esodi dalle campagne, degli inurbamenti, delle metamorfosi contadine”.

Così come scrive, Leddi ha tentato di dipingere, trapassando da momenti razionali a impeti lirici a sommessa commozione a duro scontro con l’oggettività del reale. […] è un omaggio autentico, vitale alla pittura in quanto forma indispensabile per conoscere, per comunicare, per rompere barriere. Siamo, come si vede, sull’altra faccia della luna. Hic manebimus optime.

(dalla Presentazione alla Galleria La Nuova Pesa, Roma, 1966)

Duilio Morosini

Leddi viene dalla terra padana ed è da essa, ancora e sempre, che sono calamitati le sue idee e sentimenti. C’è qualcosa di lancinante in quest’antitesi. Perché Leddi vuole dominarne tutte le sfaccettature (dire “tutto”), e, nell’atto di farlo, vive il rovello dei mezzi espressivi cui “aggrapparsi”. Di qua, la sintesi boccioniana (si vedano certi bozzetti); di là l’espressionismo panico, con innesti surreali.

Oggi è incline al secondo. Ma con quali dubbi: come se vi fosse costretto, dall’affollamento delle idee, dall’urgenza di parlare. Getta luce su questa tensione, il raffronto tra le varie versioni “narrative” – convulse, e, rispettivamente, serrate – della fine di Fausto e Serse Coppi.

Partiamo da una delle prime, di maggiori dimensioni. Lo sguardo va dal vertice alla base del quadro. La ruota ingigantita, vista di scorcio, coi suoi raggi, come un “astro”. Il nodo della catastrofe, con la bicicletta sfasciata, vista come una fantasmagorìa di linee paraboliche, tubolari – tra cui si impigliano e si esasperano gli arti dell’uomo sconfitto. La fine della caduta, tutta riassunta dal corpo riverso, il frammento della ruota dentata, il bucranio “picassiano” con le corna metalliche. Ebbene, in tutto quest’orgasmo (ingorgo di memoria visiva del molteplice e di tensione mentale a racchiudere il senso della vicenda in simboli eloquenti) il vero fulcro – il momento di verità – nel quadro risalta proprio da questo suo “finale”. Dice di aver visto, nei Coppi, i contadini inurbati per stanchezza del loro stato avvilente, e, nella loro “caduta”, nulla di trascendentale; anzi, un fare brutalmente i conti con l’origine, con la terra.

Ma torniamo all’inizio del ragionamento, sugli assilli e contraddizioni dell’artista; è là, dove egli “tocca terra”, come se rivivesse modernamente il mito di Anteo, che la sua pittura tocca davvero – oggi – il punto di maggiore consistenza (pur non rinunciando al racconto per associazioni mentali). La vacca – tutta muso, ossa, corna, coda, in un unico scorcio – che sbuca accanto al corpo disarticolato dalla dura caduta (La caduta del campione). L’uomo finito, accanto alle lame dell’aratro. L’uomo prostrato, ingabbiato tra assi che sanno, insieme, dello steccato, del canneto e della sbarra di un immaginario carro, affiancato dal testardo avanzare del bue.

(Paese Sera, Roma, 3 febbraio 1966)

Franco Loi

Castellania, il paese di Coppi, è sul fianco del monte Giarolo. E l’appartenere di Leddi a un paese, a un monte, dà il senso di un destino collettivo, di individuali avventure che sopportano il peso di una storia e di una cronaca. Il pittore del “campione caduto” e della “morte del campione” ha la follia di incidere un’epica perché ha coscienza di scoprire una propria storia: guardare questi occhi stravolti, questi torsi d’albero spezzato, queste scapole magre: vedere questi albereti, i sereni di carta, i vomeri come ossa sulla terra: pensare questa pittura dà dolore, si è coinvolti nella visione crudele di esistenze che segnano nella fisionomia la paura delle cose ignote e senza scopo. […] Nel racconto di Leddi, Coppi, un nome che è stato scritto sugli asfalti, su cementi, sui cartoni, gridato da bocche esaltate da mezza Europa, scritto in inchiostri che echeggiano sul vasto mondo, questo Coppi di Castellania, garzone di bottega e provinciale d’Appennino, questo Coppi è un uomo tormentato e solo, un valligiano che fatica e cade, un corpo che si spezza su una terra avara di un qualsiasi cielo.

(dalla Presentazione al Salone dei commercianti, Tortona, 1966)

Nicoletta Colombo

La moderna tipologia rappresentativa di uno dei miti della contemporaneità, come quello di Fausto e Serse Coppi, strettamente connessa nell’opera di Piero Leddi con i significati di tradizione e di evoluzione sociali e di costume, è da rapportare alla cultura legata al mondo rurale di origine, scossa dai sismi conflittuali del cambiamento epocale. Occorre considerare l’ottica antinaturalistica con cui l’artista, pur sempre legato al tema della figurazione e proteso alla sua trasfigurazione, ha tradotto la comunicazione di un vero “esistenziale” nella ricca produzione di oli, disegni, acquarelli, acqueforti e litografie. […]

Leddi addita esplicitamente una chiave di lettura interpretativa dei disegni, delle incisioni e del suo lavoro sui Coppi e comunica la trasfigurazione umanizzata della vita contadina, quella che aveva caratterizzato il clima dei suoi anni giovanili, vissuti all’insegna della consapevolezza amara dell’esistenza degli umili, in perenne lotta con una natura che li sottoponeva ad una parsimonia di mezzi quasi filosofica, alla scarsa resa a fronte di immani fatiche, alle cadute indotte dalla velocità dell’evoluzione culturale post-bellica, che era sfociata inesorabilmente in uno sconcerto finale: l’avvenuta consunzione del senso e del ruolo delle terra e della vita collettiva legata alla campagna […]

L’apparire del tema della caccia, rappresentata dagli animali che spesso accompagnano la raffigurazione di Coppi, non costituisce solo un esplicito riferimento all’arte venatoria che fu la passione di Fausto e che lo condusse alla morte, ma traduce in chiave simbolica il sogno collettivo, in quanto vagheggiato più o meno da tutti i contadini dell’alessandrino, di emulare la società borghese, di assumerne almeno uno degli aspetti peculiari, quella caccia che si identificava all’epoca con il riscatto dalla miseria e con l’evasione dalle asperità esistenziali. […]

Immagini zoomorfe ed umane che si ibridano in una sorta di “zoologia fantastica” alla Jorge Luis Borges di Manual de zoologìa fantastica (1957), sintomo sofferto della crisi che ha percorso il ’900, nella cui cultura il ricorso alla rappresentazione dell’animale traduceva un disagio psichico collettivo, un tentativo cioè di addomesticare i mostri dell’anima.

Leddi onora costantemente i principi della figurazione in una ricerca che li libera dalla rappresentatività naturalistica poco organizzata e li conduce allo studio del segno, al governo della forma nella sua struttura rigorosa, pulita, talvolta classicamente ingabbiata nell’equilibrio tra le impalcature, tra i ritmi di pieni e vuoti e tra le geometrie delle linee, assetti di regole che il dolore delle acquetinte o le macchie tragiche tra i grovigli mai risucchiano nel gorgo dell’irrazionalità. Non per nulla l’artista ha concepito l’incisione, in cui ha svolto una consistente mole di lavoro, come metodo eccelso di studio, di ricerca e di scoperta, conducendo il segno a lasciarsi guidare verso soluzioni che traducono in un tracciato agile, ora differenziato in gamme sfumate ora aggressivo eppure controllato con sapienza, le luci e le ombre, le sensazioni e l’indisciplina volutamente inserita nel momento emotivo e poi riportata al controllo espressivo-costruttivo.

(da Fausto. In memoria di Fausto Coppi 1960-2010, a cura di Gianpaolo Ormezzano, Fare Edizioni, Novi Ligure, 2010)