La Rivoluzione Francese
Testi Piero Leddi. Testi critici di Anna Finocchi, Mario de Micheli, Michel Vovelle e Raffaele De Grada
Piero Leddi
La ricerca è cominciata nel 1985. Nel 1987 ho esposto il quadro Il giuramento della pallacorda alla Biennale nazionale d’arte Città di Milano, vincendo il 1° premio.
L’anno successivo ho tenuto una mostra nella sede della Banca Popolare di Milano a Roma, con presentazione di Anna Finocchi […]. Sempre nel 1988 ho presentato alla Shop Art di Milano una cartella di incisioni, Donne della Rivoluzione francese.
Il lavoro intorno a questi temi si è concluso con una personale al Castello Sforzesco, Omaggio alla Rivoluzione francese, promossa dal Comune di Milano per il bicentenario dell’89.
All’inizio era stato solo un innamoramento per l’architettura neoclassica, il periodo storico.
Ho visitato il museo Carnavalet di Parigi, studiato i quadri di David, Fuseli, Giani, i progetti architettonici di Boullée e Ledoux, ma anche i luoghi, le architettura milanesi e lombarde della Cisalpina, la letteratura illuministica, le stampe del Foro Bonaparte dell’Antolini, il progetto del Cagnola, l’Arena del Canonica. Ma soprattutto l’incanto dell’Encyclopédie: le luci argentate che entrano dalle finestre dei laboratori, la forma degli utensili per tutte le lavorazioni, la gioiosità dei nastrini, e ancora le stoffe, i Tableaux Historiques de la Révolution Française, il fascino dei protagonisti, la narrazione di Michelet.
La durata nel tempo è dovuta all’interesse per molte tematiche: personaggi, oggetti, paesaggio, architetture, animali, racconti, apparati celebrativi, costumi – come per fare un film […].
Nel 1989 la mostra è stata successivamente presentata, insieme alle opere di altri artisti sullo stesso argomento, al Palazzo del Parlamento europeo di Strasburgo e nel 1990 come personale all’Istituto culturale italiano di Lione. Nello stesso anno ho esposto una scelta di quadri sul Giacobinismo italiano anche al Teatro civico di Tortona (con presentazione di Franco Della Peruta).
Il giuramento della pallacorda. 20 giugno 1789. Vento e pioggia nello stanzone per il “jeu de paume” dei cortigiani, finestre alte con sventolio di tende. Soffitto-cielo, nuvole trascorrenti.
Grande paura e germinazione. Il grande cadavere e la paura, il trionfo di Voltaire, il luogo doveva essere il simbolo del territorio francese. Nascosto in esso un grande corpo in germinazione, grande madre che concima la terra.
Nell’ombra paura non ancora dissolta.
Festa dell’Essere Supremo. Robespierre appicca il fuoco alle statue combustibili preparate da David: l’Ateismo, l’Egoismo, il Nulla, il Delitto, il Vizio. Sotto queste appaiono altre statue: ne esce affumicata la Saggezza.
L’albero della libertà. Sarà antropomorfico, l’uomo lo vestirà e svestirà. Potato, innestato, spostato dal suo luogo originale, snaturato, schizofrenico. Contagiato dalle malattie umane. Alienato dalla produzione e dallo sfruttamento.
(Da Piero Leddi, Dipinti e disegni, Charta, Milano, 1994)
Anna Finocchi
[…]
Leddi non tratta la storia dell’arte come un repertorio di soggetti riciclabili a seconda delle occasioni: la scadenza del bicentenario della Rivoluzione Francese non gli ha fornito, appunto, un’“occasione da non perdere”. Su questi temi Leddi sta lavorando già da alcuni anni: un’indagine approfondita e lucidissima sulle fonti storiche, in particolare su quelle visive, e che si traduce nei termini di un’originalissima sintesi pittorica. Non bisogna quindi limitarsi a individuare gli spunti dai grandi quadri di David e dalla ricca iconografia rivoluzionaria – che pure sono nell’opera di Leddi spunti per nulla casuali di un preciso confronto – ma bisogna verificare la coerente prosecuzione di un’indagine che Leddi conduce ormai da decenni sul corpo umano e sullo spazio dell’architettura e della natura, oltre che su alcuni momenti e protagonisti della storia dell’arte. Indagine che si condensa in soluzioni pittoriche di grande sapienza scenografica, in cui i calcolati effetti prospettici e i sottili schemi geometrici si combinano con l’originalità e la concisa forza delle soluzioni chiaroscurali e cromatiche.
Al rigore e alla coerenza della ricerca pittorica si unisce la lucidità dell’adesione alla storia. Lucidità che significa non calcolata freddezza, ma autentica consapevolezza, che può anche permettersi dell’ironia oppure la forza della passione, senza mai cedere ai compiacimenti nostalgici o all’enfasi retorica. La profonda sintonia con la storia è una costante nel lavoro di Leddi che sostanzia il suo misurarsi in un serrato dialogo con alcuni momenti del passato.
“Non mi preoccupo delle citazioni. Mi piace studiare” – ha dichiarato in un’intervista di qualche anno fa. Dello studio però non conosce l’aridità della classificazione e il distacco della lontananza, ma lo affronta solo con l’entusiasmo e la curiosità della consonanza, alla ricerca dei nodi che possono legare il passato al presente. Leddi ha riconosciuto uno di questi nodi nelle utopie rivoluzionarie e neoclassiche e ne ha già dato un’interpretazione nelle grandi tele dell’Arco della Pace e del Parco Sempione del 1985. L’enorme lavoro su queste tematiche che Leddi va conducendo negli ultimi anni conferma le sue qualità di pittore di storia, nel senso più alto della definizione.
Per tutto questo – mai semplice illustrazione, mai occasionale recupero o saccheggio di immagini del passato, mai disimpegnata rinuncia a fronteggiare la realtà e il presente (“Mi rivolgo al tempo presente, nella nube dell’incertezza”) – per tutto lo spessore della sua colta e appassionata ricerca, l’opera di Leddi trova posto in un testo di storia come L’eredità della Rivoluzione francese pubblicato da Laterza, nel quale gioca il ruolo non dell’ornamento, piacevole e sovrapposto, ma di una autonoma, particolare, problematica interpretazione.
(Presentazione della mostra Piero Leddi, Banca Popolare di Milano, Roma, 1988-1989)
Mario De Micheli
Sono ormai più di quattro anni che Piero Leddi è immerso nei temi e nelle immagini della Rivoluzione francese. Per lui sono stati anni di studio, d’indagine, di ricerca. Andare a trovarlo nel suo atelier è un’avventura sorprendente, è come percorrere un intricato labirinto folto di seducenti richiami. L’itinerario è irregolare, si svolge su due piani per scalette e stretti passaggi, in stanze dove s’incontrano grandi tele popolate di personaggi in azione, di volti ispirati, di presenze drammatiche. Ma tra i quadri in luce o addossati alle pareti, tra i divani, le seggiole ingombre e i simboli dell’Ottantanove appesi ai muri, ecco anche i dizionari, i vecchi e preziosi volumi […]. E naturalmente i testi classici, da Michelet a Mathiez sino ai più recenti, da Furet a Vovelle. Ma ecco in vista anche […] un disegno neoclassico di Felice Giani. Leddi dice: “Giani era del mio paese, San Sebastiano Curone”. E si capisce che di questa comune origine è soddisfatto […].
Certo il bicentenario è una grande occasione per esporre questo ciclo straordinario di opere che Leddi ha condotto a termine con tanto assiduo lavoro, ma quando ha cominciato a mettervi mano non pensava in nessun modo a una crescita così fitta di opere, di studi, di disegni e bozzetti. Il tema è lievitato, si è articolato, s’è fatto imponente per la molteplicità di argomenti e di interrogativi che via via trascinava con sé e a cui non era possibile sfuggire. Ma soprattutto, lavorandovi, Leddi è andato scoprendo come ogni motivo, ogni problema di quel lontano passato adombrava o poteva adombrare le difficoltà del presente, le ragioni e gli ideali più alti del tempo in cui siamo posti a vivere e operare. E questo, a mio avviso, è il vero motivo per cui egli, una volta iniziato a dipingere o a disegnare una o due opere sulla Rivoluzione, ha avuto l’impressione di scavare in un filone inesaurabile e ne ha quindi seguito la vena sino a oggi, in una sorta di sgomento e di entusiasmo […].
Le opere [di Leddi] sono innanzitutto il frutto non improvvisato di una lunga riflessione e di un lungo amore, nutriti di letture accanite, di repertori iconografici, di perlustrazioni nel dominio dell’aneddotica. L’interesse politico e intellettuale, nella sua fatica di “produttore di immagini”, si è unito allo scrupolo culturale e all’esigenza di una conoscenza non generica. E tuttavia non sono ancora queste le qualità che caratterizzano le sue opere, anche se di tali qualità v’è chiara l’impronta. Ciò che dà fisionomia e vibrante accento alle sue immagini è soprattutto l’urgenza formale che ne determina il segno, il piglio, l’impulso grafico. C’è sempre un fremito poetico nei gesti dei personaggi che appaiono sulle sue tele e c’è sempre un respiro plastico vivificante nelle scene dove tali gesti si compiono. Ma l’interrogativo è questo: donde gli viene la suggestione esatta dei luoghi, degli ambienti, delle architetture, delle sequenze che costituiscono la trama e l’ordito dei suoi racconti figurativi? Donde gli vengono i dettagli della verità, dico anche della verità oggettiva, di cui la sua stessa immaginazione non può fare a meno inseguendo la definizione delle proprie rappresentazioni? […].
(Da Piero Leddi. Omaggio alla Rivoluzione francese, a cura di Mario De Micheli, Sala Viscontea, Castello Sforzesco, Milano, 14 luglio-17 settembre 1989; Electa, Milano)
Michel Vovelle
Nel suo appassionato interrogare la Rivoluzione francese, era inevitabile che Piero Leddi si imbattesse nella festa. Il tema non gli è estraneo, egli lo ha già affrontato più di dieci anni fa (Ballo all’Arena, 1976; Festa sul Ticino, 1976-1978); feste inquietanti nello scenario dell’arena che ritroveremo.
Nella serie di interrogativi posti alla Rivoluzione, la festa ha un ruolo particolare, oggetto di schizzi continuamente rimaneggiati, di domande continuamente riformulate. Non si tratta in questo caso di cercare un uomo – Marat o Robespierre – individuandone i tratti o mettendolo in situazione, né tanto meno di evocare un istante, fosse anche quello del Giuramento della Pallacorda: è il significato stesso dell’avvenimento che bisogna cogliere a partire da uno dei suoi momenti più misteriosi – momento in cui l’eroe rivoluzionario affronta il giudizio di colui del quale proclama l’esistenza e si presenta nella vivida luce di quel sole al centro del quale brilla l’occhio giudicante.
Per rappresentarlo, Piero Leddi ha scelto tre sequenze, tra le scene che la giornata del 20 pratile dell’anno II gli offriva, senza rinchiudersi nella cronaca per immagini che l’iconografia contemporanea gli suggeriva. […]. Egli ha individuato tre sequenze capitali: una, centrale, intorno alla montagna elevata nel mezzo del Champ de Mars, dove è sfociato il corteo della Convenzione e del popolo parigino, un’altra a partire da quel carro dell’agricoltura sovraccarico di ornamenti e di simboli, che fu uno degli elementi più in vista del corteo della partenza all’Hôtel de Ville. Un terzo tema, infine, meno direttamente legato all’avvenimento del giorno, si articola intorno all’albero della libertà – certo uno dei motivi della scena, poiché si ritrova sia in cima alla montagna che sul carro dell’agricoltura – ma anche simbolo festivo, degno di essere trattato per se stesso, ai piedi del quale si dispiega la danza della libertà.
Questa triplice scelta è già in sé significativa: essa fissa ciò che l’immaginario di un artista contemporaneo – che peraltro conosce perfettamente le espressioni iconografiche del tempo – ha colto, o meglio ancora selezionato, di un momento, del quale si sa quanto abbia “affascinato” gli storici della Rivoluzione, a cominciare da Michelet.
[…]
È inevitabile anche paragonare la composizione di Piero Leddi a una delle feste romane più imponenti del 1798, la festa della Federazione sulla piazza San Pietro, quale un dipinto di Giani la rappresenta. Stesso dispositivo scenico di quattro colonne monumentali sormontate da statue, intorno all’altare della patria cui si accede per gradi. Una differenza fondamentale tuttavia: il dipinto di Giani, grazie a una tecnica di ripresa dal basso, valorizza il movimento ascensionale dei gruppi e dei cortei che salgono verso gli accessi all’altare, in una prospettiva aperta.
È l’effetto contrario che Piero Leddi ha cercato in questa composizione, in cui la ripresa dall’alto pone quasi un abisso tra i personaggi in primo piano e l’oggetto, vicino e lontano, della loro contemplazione, facendo di Robespierre una sorta di Mosè, che possiamo figurarci mentre contempla la terra promessa, o il roveto ardente dell’immagine divina.
Ci interroghiamo su questi personaggi: è poco dire che l’artista non ha cercato un effetto di folla. Certi schizzi sono quasi spopolati, o presentano in primo piano solo pochi spettatori inattivi, visti di spalle, generalmente nudi, se si eccettua qualche dettaglio dell’abbigliamento. Un ammiccamento allo stile neoclassico del David del Giuramento della Pallacorda, si direbbe, se non vi si ritrovassero le figure care al pittore e il contrappunto, che egli predilige, tra la fluidità della forma umana e le costruzioni affilate delle sue architetture. Leddi ha dunque popolato il suo quadro, ma molto discretamente, almeno per ciò che riguarda la scena centrale, nella quale qualche gruppo sparso si dispone a diversi livelli, senza alterare l’impressione voluta di una scena vuota, inondata di sole.
Si direbbe che sia l’istante che precede la festa – l’arrivo dei gruppi. Ma forse essa non avrà luogo, forse si riduce a questa contemplazione a distanza, in un abbandono noncurante per alcuni, più convinto per altri… Poi, di disegno in disegno, si impone la presenza di Robespierre, che darà a questa scena, più che il tocco finale, il suo significato. […]
È un’altra immagine forte – quella del carro dell’agricoltura – che Piero Leddi ha individuato per proseguire nei suoi interrogativi […]
Dalla festa dell’Essere Supremo dell’anno II fino alle feste dell’agricoltura che il periodo del Direttorio integrerà nel ciclo delle celebrazioni annuali, tale riferimento è costante […].
In che cosa Piero Leddi vi si può ritrovare? Innanzitutto si potrebbe osservare che egli ha da parte sua un legame molto vivo con le cose dei campi. Ama gli alberi, ama gli oggetti, gli utensili tradizionali, massicci, semplici e complicati come può essere lo stesso carro dell’agricoltura, poi ama le bestie – caprini o bovini, coi quali ha avuto dagli inizi della sua produzione un rapporto fisico complesso di familiarità e di aggressività insieme. Si sarebbe tentati di dire che la rappresentazione che ci dà del carro dell’agricoltura sia stata concepita a partire dal gruppo iniziale di questi buoi possenti, massicci nel loro movimento lento, immagini di una forza ostinata e selvaggia, in armonia con la forza del carro che trascinano. Il gruppo dei buoi – quasi bufali dalle larghe corna e dal collo potente – si impone, si direbbe progressivamente, a Piero Leddi dai primi disegni fino all’opera compiuta. Ricorda tutta un’eredità, quella dei pittori veristi della fine del secolo scorso, cantori di un mondo rurale e delle sue forze nascoste. Tale presenza della natura è come accentuata dal gioco delle ombre e della luce in una scena, dapprima concepita come tenebrosa, poi inondata da sole abbagliante di un pomeriggio d’estate. Calpestio evocato dal pesante giogo in movimento, raddoppiato dalle ombre proiettate sul terreno.
[…]
Del carro dell’agricoltura Piero Leddi ha fatto a suo modo un trionfo, se non del popolo francese, almeno della Rivoluzione. Nella sua composizione piramidale, la natura resta onnipresente, non solamente attraverso la forza animale del carro, ma attraverso il simbolo d’una gigantesca spiga di grano e di un albero che corona l’edificio in movimento, selvaggio e arruffato anch’esso, espressione della natura in libertà in contrapposizione alla natura asservita, sormontato da una coccarda che si inscrive nel triangolo della divinità. Nella costruzione in altezza si potrebbe vedere il simbolo stesso del lavoro della Rivoluzione, dalla base larga e forte – la forza delle cose, forse? – fino allo slancio alla conquista del cielo dei rami dell’albero della libertà. Ma tra questi due livelli si situa l’azione degli uomini e delle immagini che li rappresentano, attraverso i diversi volti della Rivoluzione.
[…]
Tale è, tra ombre e luci, la Rivoluzione che avanza al passo lento dei buoi, immagine insieme di fatalità e di libertà, sotto lo sguardo dell’Essere Supremo.
Questo duplice aspetto non è quello che si ritrova negli studi e nelle variazioni che Piero Leddi ci propone intorno al simbolo per eccellenza dell’albero della libertà? Alla stregua dei rivoluzionari, egli lo colloca al centro delle sue grandi composizioni dedicate all’Essere Supremo: gli dà vita per se stesso, associandolo ai diversi oggetti simbolici del periodo. Così facendo riprende, forse senza saperlo, una delle tradizioni che sono all’origine dell’albero della libertà. Lungi dall’essere il simbolo rassicurante delle riconciliazioni fraterne, il luogo di una gioia spensierata, i primi alberi eretti a partire dal 1790 nel sud-est della Francia – nel Quercy, nel Perigord o nel Limousin – furono dei “mais” di lotta rivendicativa […].
Mi pare di aver riconosciuto negli schizzi nervosi di Piero Leddi simili “alberi di maggio”, simboli di conquista dalla forza prorompente. Alberi vivi o alberi senza radici: la stessa epoca rivoluzionaria ha dovuto fare la scelta, piantando in qualche occasione su un basamento tali emblemi dimostrativi.
[…]
La Rivoluzione di Piero Leddi è cosa seria. Essa ha per molti aspetti una dimensione tragica: nella solitudine dell’eroe rivoluzionario, nella presenza della violenza proprio al centro di ciò che dovrebbe essere gioia, nello stesso cammino in cui la libertà si apre un varco al passo lento e incerto dei grandi buoi, simbolo cieco della forza delle cose. E tuttavia la Rivoluzione non si riduce alla disperazione, ancor meno all’apocalisse. Essa è conquista, accesso a un ordine superiore, è luce che penetra l’ombra, emanazione di quell’Essere Supremo, che forse non è che la suprema espressione della volontà umana.
(Da Piero Leddi. Omaggio alla Rivoluzione francese, a cura di Mario De Micheli, Sala Viscontea, Castello Sforzesco, Milano, 14 luglio-17 settembre 1989; Electa, Milano)
Raffaele De Grada
Nel 1989 alcune manifestazioni ricordarono il secondo centenario della Rivoluzione francese, che tanti effetti produsse sulla nostra Lombardia, specialmente a Milano dove notevoli fermenti culturali avevano contribuito a prepararla. Ma le manifestazioni non toccarono le arti figurative se non per una mostra, lungamente preparata sul tema, di un pittore che poi espose i risultati del suo lavoro. Questo pittore, che ha operato in questi anni in una sorta di isolamento, tutto dedito alle ragioni dell’arte, è Piero Leddi, un ex giovane che è sbarcato a Milano da un paese isolato del Tortonese, S. Sebastiano sul fiume Curone, noto soltanto per essere finitimo con quel Volpedo che dette i natali al grande Giuseppe Pellizza.
E proprio al culto di Pellizza devo la mia amicizia con Leddi. Fu lui che mi accompagnò nel primo dopoguerra a visitare lo studio del Maestro piemontese, un vero sacrario, custodito dagli ultimi suoi familiari.
Piero Leddi era di casa e respirava 1’aria di quel grande infelice che, com’è noto, finì tragicamente ancora in età relativamente giovane. Da Pellizza Leddi ha ereditato il massimo insegnamento, quello dell’arte impegnata a testimoniare un tempo, con le sue idee, i suoi propositi, le sue speranze. De Micheli ha ricordato che in quegli stessi paesi visse anche il neoclassico Felice Giani, che forse ha ispirato a Leddi il gusto della grande composizione, così insueta ai nostri tempi. Fatto sta che Leddi ha ricercato con grande tenacia e molte qualità il difficile incontro tra il nucleo poetico insito nella propria personalità e una tematica di largo impegno culturale com’è quella che si rivela nelle opere qui esposte.
L’originaria natura contadina portava Leddi alla considerazione pragmatica delle cose, sul terreno poetico dell’espressione della propria intimità, ma nello stesso tempo davanti a lui si paravano gli scenari fascinosi di magiche contemplazioni di fastigi e misfatti, il perturbante dissidio della storia degli uomini. Ecco che le sue mucche, gli uccelli, gli alberi e la stessa umanità assumono l’aspetto orrendo delle figure mostruose, evocate dal visionario infernale.
Saranno forse le eco dell’infanzia vissuta, pur da lontano, nella tragedia della guerra, che accendono il visionario di Leddi. È certo che le sue forme scabre, che sezionano con un disegno acuto, tormentato le scene suggerite dalla sua fantasia, che farnetica anche sui fatti della cronaca a lui vicina (l’epopea del conterraneo corridore Coppi come gli uccelli uccisi dai cacciatori della sua valle) fanno già presentire negli anni settanta le opere che qui vediamo, dedicate al più drammatico episodio della storia moderna, la Rivoluzione francese, interpretata da Leddi come una vittoria, piena di contraddizioni, della civiltà nuova, industriale e moderna, contro la civiltà contadina, arcaica e feudale, che pur gli stava nelle vene.
Non credo che sia un forzare l’interpretazione di queste opere di Leddi ispirate dai fatti e dai personaggi della Rivoluzione francese affermare che in esse si manifesta una contraddizione tra la nostalgia di una civiltà antica e gli stimoli acuti del moderno. Disegnatore penetrante, rigoroso, Leddi non si lascia trascinare dagli entusiasmi pellizziani del Quarto Stato dove il corteo degli operai contadini è circonfuso da un’aureola fatata di avvenire. Le immagini di Leddi cavalcano la metafora delle guerre e delle feste con un messaggio improrogabile dell’evento storico; i cavalli dell’Apocalisse dell’armata del Cardinale Ruffo come le colonne libertarie delle feste della Repubblica romana, i simulacri della Dea Ragione come gli episodi del Terrore incutono insieme il senso di avvenimenti giusti, ma sofferti, non voluti né goduti. Un fantasma aleggia su queste immagini di Leddi, quello del grande Goya per cui la rivoluzione suscita la guerra e la guerra incombe con le sue figure bestiali, evocate dagli abissi infernali. […]
Si avverte che l’immaginario di Leddi è ispirato dai nobili esempi del neoclassicismo (il ricordo di Felice Giani non è inutile), ma nello stesso tempo è tormentato da quel bagliore espressionista che percorre come una folgore tutta la sua opera. Le aquile, i tridenti, i nuovi scettri sono nelle mani dei nuovi mostri del giusto e del razionale, pronti a colpire e a distruggere per rinnovare.
L’opera di Leddi non è dunque neppure sfiorata dalla retorica dell’illustrativo e del racconto, anche se dedita a raccontare gli episodi significativi della Storia. La Rivoluzione e le sue conseguenze sono viste in controluce con un linguaggio articolato e drammatico dove il segno esprime l’implacabile memoria del tempo, e in questo grandioso scenario è possibile intravedere una gran pietà sia per il Prina defenestrato dal popolo sia per Zamboni torturato dalla Giustizia pontificia.
Le immagini di Leddi inclinano a farci cogliere più il dramma dei torturati che le esaltazioni delle masse in una visione quanto mai tragica degli eventi rivoluzionari, raccontati più attraverso il patimento delle vittime che la celebrazione dei fasti. Gli stessi stecchiti “alberi della Libertà” sembrano offerti come cespugli secchi alla futura rabbia della reazione che li brucerà drammaticamente.
[…]Si ricorda che David voleva raccogliere tutte le opere (noi le chiameremmo installazioni) che erano state prodotte dalla spontaneità popolare durante i brevi anni della grande Rivoluzione. È come se oggi Leddi le volesse rivedere con gli occhi delle sofferenze, anche gloriose, di due secoli. […] Gli accostiamo mentalmente altri esempi del repertorio di Leddi, le sue visionarie immagini delle stazioni, degli archi cittadini, dei tram, dei metrò, delle città sconquassate e purulente.
Altri artisti del nostro tempo ci hanno abituato a queste visioni (i disegni di guerra di Moore, di Sutherland per esempio), frutto di rivelazioni umanissime del costo che gli eventi liberatori portano alle civiltà in progresso.
È un modo significativo, partecipe, del realismo nuovo degli artisti impegnati. Leddi è un uomo di punta di questa tendenza ormai rara che raccoglie il peso di una civiltà in progresso, dei suoi fasti e nefasti. Non c’è il pianto sulle “magnifiche sorti e progressive” ma neppure la retorica immagine che il tempo costruisce e distrugge, nella sua inevitabilità. Si manifesta invece una razionale adesione, coi panni dell’oggi, a un grande evento storico più vissuto nell’anima che raccontato nella pratica, più raccolto nel segreto della coscienza che celebrato sulle piazze. E le forme non potevano essere che le sue, quelle di un realismo espressionista lacerato e contorto nel chiaroscuro della Ragione che non è più una dea ma rimane come problema dell’umanità di oggi.
(Da Piero Leddi. Giacobinismo italiano 1789-1796, testi di vari, Sala della Resistenza, Comune di Verbania, 1996)