Simboli e Metafore
Testi di Piero Leddi, Giovanni Mattana, Virginio Giacomo Bono, Franco Loi, Davide Lajolo, Luigi Carluccio, Gianfranco Bruno
Piero Leddi
All’inizio degli anni settanta tento di ricostruire figure con strutture intere e comincio racconti milanesi, antichi e contemporanei. Studio l’epoca della peste, i quadroni cosiddetti di S. Carlo, dei pittori Cerano, Procaccini, Cairo ecc., insomma il Manierismo lombardo, il processo agli untori. Il tutto incrociato con le mie autobiografie famigliari, ricordi del paese, riprese di temi coppiani.
Esco da un periodo di ricerche formali, che ora utilizzo per questi progetti: reinterpretare la vecchia “coda di paglia” della cultura milanese che è la storia della Colonna infame, Verri, Manzoni, Beccaria. Mi sono di riferimento le opere in scultura di Floriano Bodini, soprattutto quelle riguardanti temi religiosi.
Con Bodini ho avuto un lungo sodalizio. Con il ritratto del Papa del 1968, scultura lignea, Bodini indica in modo originale una nuova strada per interpretare in chiave moderna l’arte religiosa o sacra, in termini espressionistici, e con una posizione critica verso il clero stesso.
Condividevo l’ironia e il sarcasmo. La scelta della rappresentazione dell’antieroico, intesa anche come malattia e debolezza.
Era giusto opporsi al Novecento plastico e celebrativo, e in modo quieto descrivere l’esistenza normale, intessuta anche di sgradevolezze e malattie.
Questa premessa serve a giustificare un momento di interessi particolari, culminati nella mostra personale che ho tenuto alla Galleria Solferino di Milano nel 1973, che avrei voluto intitolare “Peste” – se non fosse stato per la sgradevolezza che già le opere dimostravano in se stesse.
Come ho detto prima, era mia intenzione parafrasare la peste borromaica con la situazione milanese degli anni settanta.
Dei titoli principali voglio ricordare:
Il miracolo della bambina, dal quadrone del Cerano. La scena si svolge dentro un tempio; al centro la bambina storpiata. Con fili invisibili S. Carlo dalle nuvole del Paradiso la raddrizza. La precedente iconografia era quella delle stigmate di S. Francesco che gli venivano inviate dal Bambino crocefisso.
S. Sebastiano, mitico kuros milanese, oltre che patrono di Milano, giusto per miracolo in epoca di peste. Anatomia iscritta in sei cerchi con ombra centrata in controluce.
Giangiacomo Mora, l’untore principale della Colonna infame.
Il carro di Milano, parodia della famosa stampa che descrive il supplizio del Mora e del Piazza, rei di essere gli untori responsabili della peste.
Era nelle mie intenzioni mischiare l’architettura milanese con la ricostruzione di un carro tirato da buoi. Giangiacomo Mora e il Piazza che vengono condotti alla Vetra, legati su delle sedie, schiena a schiena.
Per una parodia sicuramente esagerata, per eccesso di ironia, ho sostituito ai protagonisti degli “immigrati”: io, con parenti e amici.
La grande vacca. Nasce da un racconto-sogno, di una vacca al pascolo e di una lepre e una biscia, quest’ultima attratta dal latte. Rami di fascine e foglie per terra, luna di giorno, sole che va e viene.
Ho pensato ad un telaio di ossa, ricoperto dalla pelle.
Festa sul Ticino, in realtà la tragedia di Seveso.
Espongo tra le altre opere il trittico Bifolco, Mungitrice, Capraio.
Da questo momento in poi comincio a sviluppare simboli classici di mitologie astronomiche, temi della mitologia classica, liberamente, per ritrovare simboli attuali.
(da Piero Leddi. Dipinti e disegni, Charta, Milano, 1994)
Giovanni Mattana
Leddi non cede alla lusinga della ripetizione. Il risultato è visibile non solo nella coerenza all’interno delle singole opere ma sul lungo periodo dove, pur nell’alternarsi dei cicli e dei momenti, è riscontrabile una sostanziale continuità: così l’analisi del linguaggio mette in mostra momenti plastici di alta potenzialità espressiva (come nelle maternità o nelle teste) e momenti di accentuata e sofferta predominanza del segno-linea, nei quali l’uso di un linguaggio puntuto sembra far predominare la forza dell’irrazionale ed in cui il conflitto, sempre presente, pare risolversi nella sconfitta, nell’impotenza, nel negativo (si ricordino le cadute, le discussioni, gli amori in macchina).
Caratteristica costante e saliente del suo linguaggio è la costruzione di idee-immagini che viene ottenuta attraverso una ricerca arrovellata e continua (ne è testimonianza una cospicua mole di disegni) e che giunge, con mezzi semplicissimi, a risultati di straordinaria sintesi espressiva (ne sono esempio tipico alcune maternità).
[…] È naturale allora che egli veda l’uomo come il crogiuolo obbligato di tutti i conflitti e che l’uomo diventi il protagonista della sua pittura. Ma quali conflitti specifici? Leddi recepisce con particolare intensità quelli connessi ai rapporti familiari più intimi e al loro legame ombelicale col profondo: si pensi ai temi “nascita”, “famiglia”, “deposizione famiglia”, “cena di famiglia”, si pensi alla ricchissima gamma di implicazioni racchiuse nel polisenso delle figure di maternità (come non riferirsi alla psicologia del profondo, alla dialettica del rapporto madre-figlia, all’amore-odio, alla libertà-tirannia, a quei rapporti familiari di cui si evidenziano tutte le possibili ambiguità?). Ma il conflitto familiare si dilata a quello interpersonale, a quello del vivere civile: l’uomo creatore-vittima, l’uomo fratello-nemico, il prossimo-straniero, la volontà e l’impotenza, la discussione e l’incomunicabilità, la speranza e la delusione: ne sono testimonianza, sempre in chiave problematica, i temi della “discussione”, “discussione nella trappola”, “tram”, “amore in macchina”, ma anche temi più recenti come i “miracoli di S. Carlo – la nuova peste”, “la deposizione”, “Sant’Anna”; questi ultimi temi, in cui è visibile una rilettura del Cerano e di Leonardo, testimoniano anche, a loro modo, come il problematicismo di Leddi sia storicizzato non solo nel senso di una continua coscienza della tradizione pittorica.
[…] Talvolta il conflitto tende a risolversi in favore dell’inorganico, accentuando i contenuti di pessimismo e di impotenza sia in termini di forme che di colori, ma in altri momenti, specie in quelli di predominanza del colore-forma-superficie (sembra quasi, nell’attento Leddi, un recepire la lezione Matisse-Poliakoff) si giunge ad una personalissima risoluzione di più pacate idee-immagini.
(dalla Presentazione alla Galleria L’Incontro, Vicenza, 1972)
Virginio Giacomo Bono
Lo scandaglio nei recessi del subconscio affonda senza remore. “Quello che intendo fare è ubbidire ai miei bisogni poetici muovendo dall’irrazionale al razionale”; e parallelamente si muove la ricerca espressiva con meditati appoggi teorici: “Dipingere è un’operazione di levare e di mettere. Il mettere deve essere inteso come il togliere e viceversa. Spesso una parte prevale sull’altra creando lo squilibrio rispetto ai valori di unità e di sintesi espressiva”, e ancora: “La convinzione sul soggetto mi deve portare a una sintesi-purificazione-ripulimento del linguaggio”.
Si scopre nel fondo psichico una realtà di traumi che lo scontro con la realtà acutizza fino alla nevrosi: e dal ’61 la resa in chiave espressionistico-luministica fa ricorso a una singolare simbologia psicanalitica e tecnologica. Le forze dell’irrazionale prorompono su direttrici istintuali, di vitalismo fisiologico-organico e si scontrano nelle strutture del preordinato, del razionale, del meccanico […]. Così gli urti si sommano e le immagini si contrappongono, si sovrappongono, si complicano, con contrasti cromatici che vanno dai timbri caldi ma sempre un po’ malati degli ocra, dei rosa e dei rossi ai verdi marcescenti ai gelidi azzurri. Le stesure peraltro sono magre, artefatte, irreali, subordinate sempre a un segno incisivo ancorché instabile che collega la memoria al presente, le forze oscure alle lucide chiarificazioni intellettuali. E come un effetto coinvolgente immette o libera forze, raccorda i fondi coi primi piani, le immagini deformate o allusive con lo spazio […].
Ogni mito viene smantellato: la satira degli intellettuali ha una carica distruttiva quasi picassiana: è un germogliare di presenze inquietanti ma gelide fredde impersonali con punte di spasimo angosciato in una luce cruda che imprigiona o disperde gli elementi di un racconto ormai dissociato.
(da V.G. Bono, Realismo “critico”. Il divenire di una poetica, 1972)
Franco Loi
Piero Leddi aveva intenzione di riassumere questa sua ricerca, complessivamente, col nome di “peste”, poi, più sottilmente, di malattia. Ha voluto evitare l’argomento negli scritti suoi. Ma, a me, sembra che la confluenza di questo motivo nel suo lavoro sia molto importante.
Chi conosce la storia sa che non abbondano le “cose gradevoli”, per quanto ci sia molta discrezione nella “storia divulgata”. O qualcuno trova piacevole la storia e le cronache che stiamo vivendo?
È più probabile si tratti dell’eterna controversia tra due mondi opposti, e della contraddizione intima di una cultura che è radicata su due modi di essere, di vivere, di “godere” socialmente dei prodotti del lavoro. C’è ancora chi inclina a considerare l’attuale come “il migliore dei mondi possibili”, e chi invece non può, semplicemente perché ne sostiene e subisce il “peggio”.
“Giangiacomo Mora e Guglielmo Piazza…, certi di morire innocenti, se non altro in quanto la giustizia li aveva costretti a mentire, non aveano neppure a sostenerli nel gran punto quella forza che è propria dei gran delinquenti, la forza, il cui abuso li trasse all’atrocità.
Posti essi sovra un alto carro, vennero tanagliati lungo tutta la via che è dal Capitano di Giustizia al Carrobbio: quivi si recisero loro le destre; poi, giunti alla Vedra, luogo dei supplizi, ebbero una ad una frante le ossa; ed intrecciati alla ruota stessa, poi innalzati, rimasero vivi sei ore, fra che spasimi neppure regge l’immaginazione a pensarlo! E le povere lor donne e i poveri figli loro? Infine, scannati e bruciati, ne furono gettate le ceneri nel vicino rivo”. Così un brano dei Ragionamenti del signor Cesare Cantù nel Processo agli untori.
Piero Leddi ha dedicato molto lavoro a queste vicende, studiando libri e immagini d’epoca – anche se qui compare un solo quadro intitolato al cerusico Giangiacomo Mora. Ma forse qualcosa di questi Ragionamenti si può rinvenire in altre “tavole”, come il San Sebastiano, o il Compianto per Serse.
Ciò che mi sembra da rilevare, nell’arco di questo lavoro, è il posto che vi occupa l’uomo.
[…] Mi dispiace fare spesso citazioni, ma ho troppo rispetto per alcuni uomini e per la cultura, perciò mi sembra giusto far dire a loro ciò che esprime meglio il mio pensiero: l’uomo che Leddi ci mette davanti somiglia a quello che Vittorini tentò poeticamente di disegnare, “ha addosso il dolore del mondo”.
Penso che la “sgradevolezza” di Leddi sia un merito non da poco nel suo operare.
(dalla Presentazione alla Galleria Solferino, Milano, 1973)
Davide Lajolo
Piero Leddi è senza dubbio una di quelle teste verdi piemontesi che fanno la lezione a te ma tu non la puoi fare mai a loro. Perché la sanno già e se la macerano tanto dentro da ritenerla sofferta, imparata e digerita per sempre.
Io l’ho conosciuto tanto tempo fa questo compaesano dei fratelli corridori Serse e Fausto Coppi e fin d’allora mi aveva impressionato la sua pittura, la sua cultura, la sua sicurezza nelle discussioni e il suo legame, soprattutto il suo legame di pelle e d’anima con la sua gente e la sua terra che genera erba e grano e meliga e tante altre cose a lato del fiume Curone presso Tortona.
[…] I suoi quadri sono il segno di un pittore che invece di andarsene verso il cosmopolitismo o le elissidi e gli arcani sogni onirici e no, scava sempre di più nella casa dei padri. E i padri sono pittori impastati come lui di terra, di piante, di inverno e di estati tortonesi, sono come lui odorosi di campagna, di sambuco, di trifoglio e tutti irti di rovi. Hanno il linguaggio della civiltà contadina, dell’arte dell’uomo e per l’uomo: sono Patri, sono Pellizza da Volpedo. Anzi, Leddi affonda le sue radici di pittore in una ricerca anche più lontana, va alle storie degli untori e ritrova il suppliziato Giangiacomo Mora e i torturatori.
La pittura di Leddi si carica di tempo, di tradizione, di rivolta, di contestazione modernissima. Le sue figure paiono scheletri e il bravo presentatore Franco Loi parla di malattia e sgradevolezza.
Ed io dico sì al concetto di Loi, no alla realtà dei quadri di Leddi. Che sono invece ricchi di un fascino sottile, penetrante. Che ti parlano di morte ma sono già la vita riemersa dalle torture e dalle cadute, siano i Mora o i Coppi, siano i contadini in alterco, o le teste o il pantografo sull’erba, sia persino il povero San Sebastiano.
Ma poiché Leddi è abituato a dire tutto, ecco che diventa anche scrittore e ti spiega i motivi dei quadri, ti illustra le sue figure come personaggi. E direi che scrive bene come dipinge. Perché scrive e dipinge solo l’essenziale. C’è da fare un discorso sui suoi colori, e sui suoi rossi che sanno di mura corrose e tenere, dove sta per crescere il verde dell’erba, quella sua ricerca scabra di linguaggio per lente parole e pause contadine. Quel suo dipingere anche il più piccolo spazio, persino la cornice. La malattia della perfezione perché Leddi i quadri non li fa ma li figlia. Sono sue creature come i suoi ragazzi e lui con i suoi quadri parla, dialoga e disputa.
(Giorni-Vie Nuove, 27 giugno 1973)
Gianfranco Bruno
La storia di Leddi si è mossa entro i due poli dell’origine e della condizione. È comprensibile come i due estremi siano dall’artista ricondotti a quel nodo di pulsioni esistenziali che costituiscono la vicenda originale della persona. Perché è qui, nei sussulti di una vita intrappolata nella tela fitta della società alienante, che si aprono barlumi sull’autenticità dell’essere. Leddi sa bene che questa autenticità non può rivelarsi nei temi della pittura, sebbene essi siano spesso la chiave per giungere al centro del problema. Da qui una sua foga tra automatismo e gesto che, senza allontanarsi da un’oggettività di forme e di figure, come un’immagine che di poco distaccando l’oggetto dal suo fuoco ne riveli una tremante vita sconosciuta, scopre nella sbilenca struttura delle forme la profonda fenditura tra il dato e il vissuto.
I temi del confronto tra l’origine e la condizione, siano essi l’amore in automobile, la famiglia, la discussione, sono vissuti dall’interno, come dramma di un autoriconoscimento attraverso i motivi dell’alienazione collettiva. Ecco perché il realismo di Leddi, se tale vogliamo definirlo, non è rivolto agli oggetti, alla cronaca e nemmeno alla storia, ma va inteso come un continuo rapportarsi della pittura a quella sostanziale convergenza di pulsioni esistenziali che costituiscono l’identità profonda della persona. Si comprende bene il più recente ricorso al mito storico, all’immagine simbolica: perché simbolo e mito rimandano ad una realtà collettiva non circoscritta, inclinano sulla realtà individuale e insieme collegano per oscure regioni l’individualità alla storia di tutti. C’è un dipinto del 1974, Sant’Anna con il vitello, di estremo interesse. Il tema freudiano della generazione vi è reinterpretato con l’introduzione del vitello, figura di congiunzione alla terra madre. E il moto delle figure trapassa dalla madre alla figlia al bambino, in un involversi di masse come visceri espressi dal profondo seno della terra. Così anche il ricorso a quell’estrema secchezza di segno che conferisce un castigato rigore all’immagine di Leddi, la suggestione d’antico che le sue opere recenti hanno, si spiegano con la necessità da parte dell’artista di restituire il distacco ineguagliabile dello stile ad una materia tanto incandescente perché vissuta sulla propria dibattuta identità.
(dalla Presentazione al Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 1975)
Luigi Carluccio
In Leddi, il disegno tende sempre ad essere formalmente elegante perché è un tratto che fa parte della sapienza prima ancora che dell’abilità dell’artista: la composizione chiude sempre in una griglia lucidamente architettata i guizzi e i lampeggiamenti della forma, perché è il segno di una visione pienamente dominata con i sensi e con lo spirito. Disegno e composizione realizzano in stretta simbiosi uno strumento raffinatissimo. Lo strumento adatto a comunicare nei modi più fascinosi (la fascinazione è un aspetto genuino dell’opera d’arte) la struggente e capziosa “profezia del presente” che ci pare costituisca il nodo di fondo della visione pittorica di Leddi.
(Panorama, 31 maggio 1977)